domenica 9 settembre 2007

DANNY E NIDAL

Danny e Nidal non si sono mai incontrati, ma sapevano tutto l’uno dell’altro. Erano i miei più cari amici. Vivevano ad una distanza minima l’uno dall’altro, minima ma incalcolabile, una distanza che non si è potuta mai colmare nel corso della loro vita.
-Un giorno ci incontreremo e vivremo insieme in modo normale- diceva Danny
-allora mi farai conoscere Nidal e andremo tutti e tre ad Haifa a fare il bagno-.
Intanto avanzava il muro, guardavamo con preoccupazione crescente le acrobazie che tutti i giorni dovevano fare i bambini per scalarlo o passare tra gli stretti varchi per poter andare a scuola, Nidal e io.
-Come sta Danny?- chiedeva Nidal mentre il suo sguardo verso il cielo cercava la mitragliatrice collocata sul muro che sparava automaticamente, cioè senza il cecchino, ogni volta che la fotocellula sentiva qualcosa di vivo muoversi, fosse pure un asino o un gatto. Sotto gli occhi vuoti della morte che tecnologicamente incombeva su di noi, parlavamo delle nostre vite e delle diverse difficoltà che ognuno di noi affrontava. Avevo conosciuto Danny alcuni anni prima quando incuriosita e affascinata dalla realtà del kibbuz avevo scelto di andarci a vivere per un po’ dividendo il lavoro e la quotidianità con i suoi abitanti. Avevo letto “I figli del sogno” il libro di Bruno Bettelheim che racconta dell’educazione dei bambini, di come vivevano tra loro in gruppi di uguali, senza i condizionamenti degli adulti.
-Non è mica più come una volta- diceva Danny –adesso i kibbuzim si stanno trasformando, lo stile di vita socialista viene meno e si avviano a diventare industrie.-
Se ne andò l’anno dopo per andare a vivere a Tel Aviv. Finita la sessione di esami tornai in Israele e lo incontrai in un locale frequentato da giovani della sinistra pacifista ed arabi israeliani.
-Lascia stare il kibbuz- disse –vieni a casa mia, vivo con altre quattro persone, sono sicuro che i miei amici ti piaceranno.- Lo accontentai. Restai con loro tutta l’estate, due dei ragazzi che abitavano con Danny erano gay, gli altri due una coppia. Era gente simpatica, parlavano tutti inglese perciò non avemmo problemi di comunicazione. L’ebraico non sono mai riuscita a parlarlo. L’anno dopo sarebbe dovuto venire lui da me a Roma, ma prima dell’estate si ammalò. Le notizie sulla sua malattia erano vaghe, non aveva un’idea precisa di cosa veramente avesse, ma si sentiva a pezzi. Quell’anno partii comunque, ma non per andare a Tel Aviv. Avevo cominciato a prendere coscienza di quanto fosse grave e insostenibile la situazione dei palestinesi e lo strano è che determinante per questo salto di qualità non era stato l’ambiente di sinistra che frequentavo a Roma, molto sensibilizzato sull’argomento, ciò che fu veramente determinante fu l’affetto grande e profondo che avevo per Danny. Scattò in me a causa sua quel qualcosa che permette di passare dalla teoria alla pratica, quella scintilla di passione, quella decisione presa col cuore oltre che con la mente. I palestinesi per me erano diventate persone vive e non solo un popolo in lotta per la propria libertà. Persone con occhi di ragazze e ragazzi come Danny che avevano tutti un futuro incerto e pieno di dolore, anche se, in diversi gradi e forme. Vidi con i miei occhi e sentii sulla mia pelle l’umiliazione dei ceck-point, vidi da vicino l’immane violenza fatta al territorio, bulldozer dappertutto, campi distrutti, villaggi rasi al suolo, cantieri ovunque deturpavano la faccia del paesaggio, le cui colline ferite da strade di aggiramento che collegavano gli insediamenti a Israele subivano lo strappo dai loro fianchi di aranceti e ulivi, perché gli alberi non collaborassero con la resistenza impedendo una maggiore visibilità e non permettendo che tutto fosse sotto controllo anche da lontano. Ne parlai con Danny che andai a trovare prima di tornare a Roma.
-Perché tanto accanimento contro la terra? Perché tanta determinazione a imbruttire, a stravolgere a umiliare un paesaggio che era stato bello?-
Danny mi guardò con un espressione di indicibile tristezza.
-C’é anche l’inquinamento prodotto dalle fabbriche che i coloni costruiscono lì per non incorrere nelle leggi a protezione dell’ambiente che in Israele sono severe e c’è il furto dell’acqua-.
Gli chiesi che cosa pensasse del mio impegno di interposizione nei territori.
-Fai una cosa bellissima- mi disse
- E sei anche coraggiosa-. Gli avevo raccontato che a un ceck point ero rimasta bloccata nove ore in mezzo alla gente senza poter andare né avanti né indietro e che in un'altra occasione mentre proteggevamo gli operai del comune che riparavano i danni fatti dai tanks dei soldati che il giorno prima erano entrati sparando all’impazzata mi avevano sparato intorno per un bel po’.
-I palestinesi riparano tutto immediatamente- disse Danny sorridendo
-Credo che lo facciano per rimettere a posto prima che gli venga la depressione-. Avevo notato anch’io questo rifiuto di scoraggiarsi, di darsi per vinti. Avevo appena conosciuto Nidal e lui più di chiunque altro mi dava questa impressione.
-Il mio amico Nidal mi fa sempre pensare a quello slogan delle lotte operaie “resisteremo un minuto più del padrone” dissi a Danny.
Nidal faceva parte dell’organizzazione che aveva accolto il nostro gruppo all’arrivo nei territori. Gli avevano distrutto la casa tre volte e lui tre volte l’aveva ricostruita. Sebbene avesse la nostra età, 24 anni, era già sposato e aveva due bambini. Danny aveva voluto che gli parlassi di lui. Nidal era laureato in lettere, la letteratura era la cosa che gli piaceva di più al mondo. Per tanto tempo aveva desiderato viaggiare e conoscere gente diversa, ma uscire dai territori non è facile.
-Siamo persone senza diritti- diceva –siamo non persone, mica possiamo andare e venire come ci pare, come fanno gli altri!-
-Come ha fatto- chiedeva Danny –a laurearsi, sposarsi e diventare padre così presto? La vita gli corre dietro come il vento? –
-Forse è la morte che gli corre dietro- dissi pensando ai soldati sulle torrette, alle strade distrutte, ai palazzi bombardati e al paesaggio violentato. Anch’io ero rimasta stupita della velocità con cui Nidal aveva tessuto la trama del suo destino, gli avevo detto:
-Quando penso a te mi sento una cretina con tutti gli esami che ho ancora da fare!- Nidal mi aveva risposto tranquillo:
-Tu hai tutto il tempo, tu puoi aspettare a finire gli studi, e poi adesso stai facendo qualcosa che ti arricchisce come essere umano. Il mio tempo non è come il tuo-.
- Si, il tempo nei territori occupati non era lo stesso che altrove. Lì si impiegavano due ore per fare un percorso di 2o minuti, lì si usciva per andare a lezione e si rimaneva tutto il giorno al ceck point, oppure si usciva dal lavoro e non si poteva tornare a casa perché il ceck point era chiuso… non mi era venuto in mente che proprio quello spreco di ore, di vita, rendesse poi necessario fare tutto più in fretta. Più tardi capii quanto gli studenti palestinesi prendessero sul serio lo studio. Nidal aveva studiato con accanimento, a lume di candela, battendo i denti dal freddo, come se ne andasse della sua vita, nella casa mezzo distrutta e i carri armati per strada. A dispetto della chiusura forzata delle scuole, della difficoltà di arrivare all’università, del coprifuoco e dei bombardamenti.
-Quando andavo all’università i professori concordavano con gli studenti programmi di studi intensissimi perché prevedevano che l’università poteva rimanere chiusa per mesi e mesi e noi non volevamo perdere gli anni- mi disse.
Nidal mi aveva fatto conoscere la letteratura palestinese, in particolare Gassan Kanafani, uno scrittore ucciso a 37 anni dal Mossad in un attentato. Avevo letto due volte “Uomini sotto il sole” e altri suoi racconti tradotti dall’arabo.
-E’ incredibile- dissi a Danny –lo spreco di ingegno, di bellezza che avviene tutti i giorni.- Di questo scrittore mi avevano colpito l’abilità narrativa e la profonda umanità, chissà che capolavori avrebbe scritto se non avessero spento la sua vita, chissà cosa ci avrebbe ancora lasciato!-
Da Tel Aviv ero partita con una strana sensazione. Una cosa latente che non avevo avuto il tempo di approfondire presa com’ero da tante emozioni. Avevo passato quasi due mesi in Cisgiordania e Gaza e solo gli ultimi due giorni con Danny. Avevo imparato una quantità incredibile di cose, i miei occhi si erano riempiti di colori e detriti, di ferite e di speranza, di abbracci strette di mano atti coraggiosi, avevo conosciuto Nidal e avevo sperato che saremmo stati amici tutta la vita, poi a un tratto il pensiero diventò chiaro e capii cos’era che attraversava tutte quelle esperienze come una linea nera e mi turbava. Danny era stato proprio strano. Triste, silenzioso, mi aveva ascoltava con attenzione, ma aveva parlato poco. Quando avevo nominato “Uomini sotto il sole” poco c’era mancato che piangesse e capii che l’aveva letto. Non mi aveva detto una sola parola sulla sua salute, ora che ci pensavo, e io non avevo domandato perché la mia mente e il mio cuore traboccavano di altre emozioni. Lo chiamai al telefono per sapere.
-Ho l’aids- disse. Quelle due parole diventarono un vortice, un buco nero che ingoiò la materia il tempo e lo spazio Non sapevo come ritornare su come aggrapparmi ai bordi del nulla, come riempire il silenzio. Mentre annaspavo nel vuoto la voce di Danny dall’altra parte del telefono
-Hei ci sei? E’ caduta la linea?-
-Sono qui – dissi.
Tornai qualche mese dopo appena mi fu possibile, perché volevo vederlo. Lo trovai in ospedale. Era pallido e dimagrito, ma stranamente allegro. Mi confortò, mentre io avevo voglia di fuggire lontano, quasi di mettermi a gridare. Come faceva ad essere così sereno?
–Dai, non fare quella faccia- mi aveva detto –ora sto molto meglio!- Mi chiedevo come era stato prima. Non riuscivo a guardarlo in faccia perché vedevo la sua fragilità, la sua precarietà. La pelle del suo viso sembrava trasparente, i suoi occhi lucenti forse di notti febbricitanti forse per le medicine. Non riuscivo ad accettare la sua malattia, non volevo saperne di accogliere quella traumatizzante novità. Forse anche lui aveva lottato contro questa irruzione repentina della morte che si faceva spazio e per questo era così triste quando lo avevo incontrato di ritorno da Ramallah.
-Mi piacerebbe che potesse venire Nidal, solo una volta-
La mia espressione diventò forse ancora più disperata perché Danny aggiunse subito
-Non importa, gli parlerai tu di me, lo farai vero?- domandò mentre mi scostava un ricciolo dagli occhi con un gesto che somigliava a una carezza.
-Tu sei una persona preziosa- disse Danny salutandomi –Sei come un ponte che collega due sponde di un fiume, una preghiera che collega la terra al cielo.-
Prima di tornare a casa passai il ceck point e andai a casa di Nidal. Ero felice di vederlo. Era assieme alla giovane moglie e ai due bellissimi bambini vivaci, ma disciplinati. Leyla aveva preparato dei dolcetti che somigliavano moltissimo ad altri che avevo mangiato l’anno prima a casa di Danny e dei suoi amici, ma non osai chiedere se erano dolci palestinesi o ebraici, certamente mi avrebbe risposto che erano palestinesi.
-Perché sei così triste?- Disse Leyla all’improvviso.-Sono triste?-
-Altrochè- confermò Nidal –E’ tutta la sera che fai finta di niente, ma non ci riesci.- Raccontai loro del mio amico Danny, i sorrisi si spensero e un po’ mi dispiacque di averli tirati dentro la mia tristezza.
-Adesso ci sono delle cure nuove- disse Nidal come per consolarmi
-Vedrai che Danny ce la farà, che diavolo è già così poca la gente per bene mica se ne può andare !-
La sua protesta riuscì a farmi sorridere, lo avrei abbracciato.

Non siamo in Africa dove la gente non può curarsi, qui la medicina e la scienza sono all’avanguardia che credi?-
Disse Danny davanti al mio stupore alla mia successiva visita. Era il ritratto della salute, si era ripreso completamente, anzi, non lo avevo mai visto così bene. Allo stupore iniziale seguì una cauta gioia, subito turbata dal pensiero di cure eccessive che producevano una salute pompata, finta. Benchè Danny avesse un bellissimo aspetto la malattia stava lavorando dentro di lui al servizio della morte. Lui si comportava come se fosse acqua passata e non ne parlava, sembrava tornato quello di sempre. A poco a poco anche i miei sospetti si acquietarono e cominciai a credere ad una progressiva guarigione, Forse era quello che a Danny serviva per continuare a vivere, perché non doveva essere facile arrivare in fondo alle giornate quando la gente lo guardava come un condannato a morte, o spiando sulla sua faccia il cedimento, l’indizio della fine.
Dopo la mia visita restammo in contatto quasi quotidiano con lunghe comunicazioni via email e chiacchierate al telefono. Danny aveva deciso di venire con me nei territori occupati appena ci sarei ritornata.
-E’ ora che faccia qualcosa di concreto anziché parlare soltanto- aveva detto
-finchè sono in tempo-
-che significa finchè sono in tempo?- domandai allarmata
-tranquilla, significa che c’è un tempo per ogni cosa e che può passare il momento giusto per un’azione anche se resti vivo-. Mi pentii del mio tono allarmato, non gli facevo del bene permettendo alla mia ansia di uscire allo scoperto.
-Voglio anche conoscere Nidal- aggiunse.
Successivamente raccontandolo a Nidal avrei visto i suoi occhi diventare lucidi e avrei sentito quasi fisicamente l’ondata di tristezza che passava da me a lui e poi da lui a me.
-Anch’io avrei voluto conoscerlo disse.
Con Danny avevamo concordato tutto, sarei andata prima da lui, poi mi sarei messa in contatto con Nidal e saremmo partiti insieme per Tulkarem. Il giorno prima di partire mentre mettevo frettolosamente assieme i pochi bagagli squillò il telefono. Lì per lì non riconobbi la voce di Noam al telefono. Noam era uno dei giovani che vivevano con Danny. Quando lo capii fui presa dal panico perché temetti brutte notizie. “Ecco” pensai “ecco che si è aggravato un’altra volta, lo sapevo che non era così facile guarire.”
-Cosa stai dicendo? Dead? Che vuol dire? Ci siamo sentiti ieri hai voglia di scherzare?- No, non poteva essere. All’improvviso non capivo più l’inglese, le parole di Noam cascavano nel mio orecchio come un grappolo di incomprensibili suoni. La mia capacità di recepire si congelò, poi una sferzata di tristezza che non mi abbandonò fino al momento della partenza e mi rese molto stanca. Perché partii come avevo programmato e come avevo programmato andai prima a Tel Aviv dove feci appena in tempo a vederlo un’ultima volta, a salutarlo.
A Tulkarem c’era stata un’incursione si sentivano ancora gli spari, ragazzini di quindici anni giravano con il kalashinkoff in spalla, arrivai a casa di Nidal al colmo dell’angoscia. Dopo poco ricominciarono a bombardare vicinissimo a noi. C’era la sorella più giovane di Leyla che piangeva per la paura, avevo paura anch’io, Leyla si sforzava di distrarre i bambini. Non mi era mai capitato di stare sotto un bombardamento, è una cosa sconvolgente. Mi sforzavo di rimanere calma, ma guardandomi le mani le vedevo tremare, non mi sentivo più le gambe. Il mio corpo andava per conto suo senza badare a me. A un tratto Nidal disse:
-Adesso basta!-
Spense la televisione che trasmetteva le notizie del telegiornale e mise un disco di musica classica, Leyla fece un caffè aromatizzato e portò dei dolci. Bevevamo il caffè e mangiavamo dolci mentre le bombe cadevano intorno a noi.
“Sono matti questi palestinesi” pensai, però ci sentimmo tutti meglio.
Quando finalmente la finirono vedemmo che c’era una voragine davanti a casa, per un soffio non avevano distrutto la casa di Nidal per la quarta volta e con noi dentro.
Mi domandavo con quale coraggio quei piloti potevano bombardare una città piena di gente con la scusa di colpire dei ricercati che in quel momento non stavano facendo niente. Mi chiedevo come potevano dormire la notte sapendo quello che avevano fatto. Mi ricordai di Danny quando mi aveva detto:
-la società israeliana si è imbarbarita, è cascata in una specie di ottundimento, di delirio.-
Danny si era rifiutato di entrare nell’esercito e per questo era stato molte volte in prigione, -Non hanno più il senso del limite- diceva.
Forse per superare il trauma subito parlammo tanto quella sera, Nidal raccontò di quando era stato ad Ansar 3 il carcere nel cuore del Neghev, in mezzo al deserto. Sapevo che era una specie di lager, ma lui non parlò delle sofferenze patite, quelle erano date per scontate, raccontò di quando avevano organizzato uno spettacolo teatrale: erano andati avanti a recitare fino a che i soldati avevano fatto irruzione e buttato i gas. In quelle condizioni facevano del teatro! Ero rafforzata nella mia convinzione: erano proprio matti. Raccontò di quei giovani che venivano da un campo profughi di Gaza, Brazil, che non erano mai andati a scuola e che nel carcere impararono a leggere e scrivere, impararono la storia, o di quando avevano fatto crescere delle piantine verdi per illuminare il deserto. Li avevano portati lì per abbatterli moralmente e loro avevano fatto fiorire il deserto! Nel carcere c’erano medici, professori universitari, ingegneri, chi sapeva qualcosa la insegnava agli altri, tutti imparavano l’ebraico e l’inglese, anche Nidal aveva migliorato il suo ebraico. La gente di Gaza e della Cisgiordania normalmente non può incontrarsi, ma lì nel carcere c’erano prigionieri tanto di Gaza che della Cisgiordania, trasformavano quella che doveva essere nell’intento degli israeliani una situazione di estremo abbattimento e depressione in un’occasione per scambiarsi notizie, idee, di discussione e dibattito politico. Ad Ansar1 nel sud del Libano Salah Tamari aveva scritto questa canzone:
“…Fate il filo spinato più spesso e i muri più alti
E portate nella tenda il resto della mia famiglia e i miei amici
O crocefiggete sotto il sole ardente un ragazzo
O date la morte a un vecchio uomo
Ma Ansar canterà sempre per l’alba
Potete impedire al sole di alzarsi?
L’alba è mia, il sole è mio, la terra è mia.”
Ancora una volta rimanevo stupita e ammirata dall’ostinazione a vivere di questo popolo che srotolava il suo quotidiano sotto il tiro dei cecchini, senza perdere mai la dignità. Leyla era preoccupata e angosciata per i bambini:
-Hanno visto troppe tragedie e ne vedranno ancora, come potranno crescere? Una volta molti di noi sarebbero vissuti volentieri in pace con loro, ma è sempre più difficile pronunciare parole di riconciliazione-
-Con gli accordi di Oslo ci eravamo fatti delle illusioni- disse Nidal, -ma la verità è che non dobbiamo aspettarci molto dall’alto, è la società civile che deve inventare percorsi alternativi, altrimenti la pace non verrà mai anche se i leaders dovessero, per miracolo, trovare un accordo domani. Dentro di noi non sarebbero strappate le radici dell’odio. Dobbiamo educarci alla pace proprio mentre cadono le bombe.-
Caro Nidal, come faceva ad avere questa forza? Il suo non era un discorso retorico, le bombe erano appena cadute.
Danny diceva che la società israeliana era in stato di psicosi avanzato e che sopravviveva rinchiudendosi su se stessa, lui pensava che bisognava far saltare questa difesa questo muro di indifferenza raccontando la verità.
-Certo- disse Nidal –abbiamo degli interlocutori, dobbiamo fare ciò che possiamo insieme perché i nostri figli abbiano un futuro migliore e non affoghino nell’odio-. Avevo nominato Danny ed ecco che lui era improvvisamente presente tra noi. Per un istante allucinato mi parve di vedere il suo sorriso, che strano, guardando Nidal notai che gettava uno sguardo nello stesso punto dove era comparso per un secondo il viso sorridente di Danny. Per il guizzo di un istante eravamo stati davvero insieme tutti e tre.
Porterò sempre con me la tristezza di Danny e il coraggio di Nidal come doni molto preziosi. Spesso nei miei sogni ci incontriamo tutti e tre percorriamo il paese in macchina da Rafah a Tulkarem da Tel Aviv a Eilat e andiamo a fare il bagno a Haifa. Se l’odio è contagioso anche la fiducia, l’amore, l’amicizia sono contagiosi, forse se corriamo molto velocemente con tutta la forza che abbiamo, forse ce la facciamo ad arrivare un momento prima della catastrofe. Nidal mi ha detto, l’ultima volta che gli ho telefonato, del progetto che sta portando avanti con altri palestinesi e israeliani: organizzano incontri tra bambini delle due parti, i bambini scrivono, con l’aiuto di due redattori adulti uno palestinese e uno israeliano, un giornale bilingue. Hanno una sede ad Haifa ed una a Tulkarem, spesso i due gruppi di bambini si incontrano e stanno insieme per un breve periodo. Leyla, mi ha detto, mentre lui era al telefono con me stava aiutando i bambini a preparare i pacchetti dei regali per i loro amichetti israeliani che dovevano arrivare quel pomeriggio, se li facevano passare al ceck point. Organizzare questi incontri era sempre una scommessa, frutto di trattative infinite e stressanti e a volte era anche pericoloso, ma non avevano nessuna intenzione di farsi scoraggiare, né intimidire. Durante uno di questi incontri un bambino israeliano gli ha detto che se i soldati cercheranno di distruggergli la casa un’altra volta, lo aiuterà lui a difende

Da "Pace non è solo assenza di guerra, ma dove la vita fiorisce"
Marea, 2004 AAVV