mercoledì 21 novembre 2007

Il muro del pianto

IL MURO DEL PIANTO

I bambini si voltarono un’ultima volta a salutarla con la mano. Amal li guardava allontanarsi nei loro lindi grembiulini con lo zainetto dei libri sulle spalle. Ogni giorno doveva lottare per superare la sua paura prima di allacciare loro i grembiuli e prepararli per la scuola. Ogni giorno i piccoli Ashraf e Senabel seconda e terza elementare dovevano cercare i varchi nel muro o camminare fino a dove non era del tutto finito e arrampicarsi per poter scendere dall’altra parte dove era rimasta la loro scuola. Il muro era lì come una minaccia, si alzava tra gli abitanti del villaggio e la loro vita. “Ora che i miei bambini devono arrampicarsi tra i calcinacci certamente gli israeliani si sentono più sicuri” pensava Amal. La notte sognava i Pink Floid che cantando “The Wall” a squarciagola facevano crollare il muro tra gli applausi, come quelli di Gerico o di Berlino. Ma il muro era sempre lì e ogni giorno cresceva come una tenia. Abu Salah un abitante del villaggio se lo era trovato addirittura nell’orto di casa. La rapidità con cui avanzava era sconcertante, Abu Salah era uscito nell’orto e l’orto non c’era più. Al posto dei tre ulivi e del melo c’era ora quel blocco grigio attaccato alla sua casa e l’orto dall’altra parte. Ma anche Um Kaled aveva avuto una brutta sorpresa il giorno che aveva deciso di andare a prendere un tè da sua sorella che abitava a pochi metri di distanza. Um Kaled che era soprappensiero vide il muro solo all’ultimo momento. Era una visione surreale e lei rimase indecisa per un attimo perché avrebbe potuto essere anche un’allucinazione alla quale forse poteva passare attraverso. Per fortuna non optò per questa soluzione perché ci avrebbe sbattuto il naso contro, infatti, quella cosa che vedeva nel bel mezzo della strada era proprio un solido e concreto tratto di muro. Um Kaled non ce la fece ad arrabbiarsi, perché se una mattina uno si sveglia, esce di casa e sulla strada che percorre da sempre si è alzato un muro, prima di arrabbiarsi rimane interdetto per un bel po’ e mentre cerca di raccapezzarsi il muro si alza da qualche altra parte della sua giornata, della sua vita. Il marito di Amal aveva una teoria.
–Sai- le disse -che il muro occidentale del tempio dove gli ebrei pregano e mettono bigliettini nelle fenditure, è chiamato muro del pianto? Gli ebrei hanno deciso di non piangere da soli e per questo ci hanno costruito questo muro che a ragione può essere chiamato del pianto-.
E lacrime e sangue erano già impastate nel cemento e nella terra sotto il muro. C’erano stati dei sit-in di protesta, i ragazzi avevano dipinto dei murales sul cemento grigio, colombe dalle grandi ali e slogan contro l’occupazione. I sit-in erano finiti con una preghiera collettiva e mentre tutti tendevano verso il cielo le mani disarmate con le palme aperte i soldati avevano sparato falciando otto vite.
Quella notte Amr non aveva chiuso occhio. Si era rigirato nel letto tutto il tempo pensando a suo padre. Voleva andare a studiare all’estero. Non era possibile andare avanti così! Un giorno l’università era chiusa, un giorno non gli facevano passare il ceck point, un giorno rompevano la strada e un altro bombardavano con i missili. Amr faceva sul serio, voleva andare avanti e aveva una vita sola, non poteva aspettare che gli permettessero di viverla lì, questo aveva detto a suo padre, mentre il vecchio (non era poi tanto vecchio ma lo sembrava per i giorni accumulati di fatica e di dolore) lo guardava con una strana espressione negli occhi lacrimosi, Amr avrebbe potuto definirla di incredulità, di paura, di abbandono. “Potresti non riuscire a tornare” aveva detto “potremmo non vederci più, non dobbiamo dividerci”. Amr aveva preso una stanza in affitto vicino all’università per evitare il ceck point. Basta. Aveva deciso. Sarebbe andato da suo padre per rassicurarlo, d’accordo, non se ne sarebbe andato, si sarebbe laureato lì, inshallah, a Bir Zeit. La decisione presa gli fece sentire la giornata più leggera compresa l’attesa al ceck point. Si era tolto un peso dal cuore che premeva di più ogni volta che ricordava lo sguardo di suo padre, ora sulla sua vecchia faccia sarebbe tornato il sorriso. Questo pensiero faceva sorridere anche Amr che andava verso il villaggio finché sulla strada di casa non si stagliò il muro. Amr strizzò gli occhi come uno che voglia vederci meglio. Forse era un appannamento della vista. Macché, era un muro. Un muro in mezzo al villaggio? A chi spiegare che doveva correre a casa? Non c’era nessuno in cima a parte le mitragliatrici che sparavano quando la fotocellula avvertiva una presenza. Amr era bloccato lì e suo padre dall’altra parte, con i suoi occhi lacrimosi che non sorridevano più che non avrebbero sorriso.
Non è che non si potesse proprio passare da una parte all’altra del muro che attraversava il villaggio, che lo tagliava in due: bisognava chiedere un permesso all’esercito per uscire dal lato dove ci si trovava, aspettare che venisse accordato e poi per tornare indietro chiedere un altro permesso. Nessuno però poteva prevedere se quando e come il permesso sarebbe stato accordato. In genere dipendeva dall’umore del graduato di turno, dalla situazione generale e dalla voglia che aveva l’IDF di divertirsi.
Mentre Amr non sorrideva più pensando a suo padre, il suo coetaneo Hakim camminava poco lontano con un sorriso ispirato stampato sulla faccia. Si sentiva leggero e allegro e poco ci mancava che si sollevasse da terra in volo sul villaggio come un personaggio di Chagal. La bella Aysha gli aveva sorriso. Che importava il grigiore della sua vita, le umiliazioni al ceck point ogni giorno, che importava la tenebra che invadeva a macchia d’olio ogni angolo del suo quotidiano. Una gioia lieve come una nuvola gli apriva il cuore a ogni possibile speranza mentre si avviava verso la casa di Aysha. Incontrò Hamza, il suo vicino, che gridava improperi al cielo.
-Che ti succede amico?- gorgheggiò sulla faccia accigliata dell’uomo.
-Il mio somaro!- gridò Hamza.
-Che è successo al tuo somaro?-
-E’ rimasto di là, dall’altra parte- gridò il vicino indicando davanti a se.
-E’ cresciuto così in fretta che il mio somaro non ha fatto in tempo a passare, è anziano poveretto non può mica mettersi a correre!-
-Ma che cavolo dici Hamza, di che stai parlando?-
Intanto che discutevano avevano continuato a camminare e in quel momento si trovavano già di fronte al muro.
-Di quello sto parlando-
gridò Hamza indignato scuotendo il braccio
-del muro!- Hakim tacque all’improvviso e rimase di gesso perché il sorriso di Aysha era rimasto di là dal muro. Tutta la sua speranza e la sua gioia diventarono d’un tratto un macigno che gli rotolò sul capo e lo schiacciò sotto una repentina disperazione.
Ma il peggio che potesse mai capitare era capitato a Leyla e a Um Farid quando il muro era arrivato nel suo strisciare fino allo spiazzo sotto casa loro. I due figli di Um Farid, Murad di 14 e Farid di 15 anni e il figlio di Leyla, Marwan, coetaneo di Murad erano scesi sotto casa a giocare a pallone. Da giorni i ragazzi non andavano a scuola perché era chiusa, o meglio, era chiusa come scuola ma non come punto di avvistamento, dopo che i soldati l’avevano requisita. Era situata in un punto alto che a loro era sembrato strategico, così gli era piaciuta. Ora la scuola non c’era più. Per dispetto ai soldati i ragazzi avevano continuato a studiare per conto loro alcuni giorni, poi avevano posato i libri ed erano scesi a giocare. Lo spiazzo era perfetto per giocare a pallone e ci avevano giocato da sempre. Però prima non c’era il muro. Marwan colpì il pallone con forza e quello volò per aria, Farid gli corse dietro stava per calciarlo quando volò anche un colpo di fucile. Dal muro un cecchino aveva sparato. Murad e Marwan lo videro cadere a terra nel sangue, corsero verso di lui, PAM un altro colpo. Marwan cadde colpito in pieno. Murad si mise a urlare per la disperazione e la paura, un terzo colpo gli strozzò il grido in gola. Alle madri dei tre ragazzi rimasero solo gli occhi per piangere, ma non tanto vicino al muro. Perché al contrario di quell’altro muro del pianto, questo nelle fenditure non aveva bigliettini di preghiere, ma mitragliatrici e cecchini, perciò conveniva piangere a distanza.


Hourrìa guarda dalla finestra il cemento grigio del muro,
-Come fa a reggersi che è così alto?- domanda.
-Ha l’anima di ferro- spiega suo padre.
Una volta guardando fuori dalla finestra vedeva il campo della sua famiglia, ulivi, alberi da frutta, d’estate fiammate di papaveri e tanti uccelli. Adesso vede solo un vuoto grigiore, è tutto il suo orizzonte. Hourrìa è immobilizzata sulla sedia a rotelle. Un giorno era nel campo a giocare con i suoi cuginetti, che ora sono rimasti dall’altra parte, è partito un colpo di obice dalla collina dove c’è l’insediamento, ha distrutto un angolo della casa e le schegge hanno colpito lei da tutte le parti, è un miracolo che sia viva, però non può più camminare, una vera beffa per una che si chiama Hourrìa: libertà. Prima che il muro mangiasse il campo venivano a volte i cuginetti a giocare con lei qualche gioco che si poteva fare da fermi, ora non più. Halas. Finito. Anche di notte mentre lei dormiva tra un brutto sogno e l’altro, il muro che è una vorace anaconda ha continuato a strisciare, fare giri e circonvoluzioni e a divorare tutto ciò che ha trovato di allegro, di bello, di colorato lungo il suo cammino e ha stritolato terra acqua e persone nutrendosi delle lacrime degli innocenti.

venerdì 12 ottobre 2007

Museo della tolleranza

MUSEO DELLA TOLLERANZA




Malgrado le numerose proteste, perfino da parte di parlamentari del Likud, la costruzione del museo della tolleranza, sull'antico cimitero mussulmano di Gerusalemme era stata ormai decisa. Gli operai lavoravano alacremente continuando a dissotterrare gli scheletri, tra quei mucchi d'ossa chissà, forse vi erano i resti degli amici di Maometto. Il cimitero risaliva a mille anni fa. Alcune famiglie palestinesi avevano perfino avviato una battaglia legale per interrompere i lavori. Anche associazioni islamiche avevano protestato presso la corte suprema israeliana, ma nulla era servito a fermare lo scempio. Il museo fu costruito e i lavori ultimati nel più completo silenzio. Venne così il giorno dell'inaugurazione.
Un pubblico numeroso e composito affollò ben presto la grande sala. Quando finirono fruscii, chiacchiericcio e spostamenti di sedie e tutti si furono accomodati, comparve la personalità incaricata di pronunciare il discorso. C'erano anche il rappresentante dell'Autorità israeliana per le antichità e un famoso archeologo. Ma prima che l'oratore dicesse una sola parola accadde qualcosa di strano. Un lungo corteo di strani personaggi stava avanzando nella sala. Erano avvolti in una specie di lenzuolo decrepito. Non facevano rumore camminando, al pari di corpi senza peso. Per qualche minuto il silenzio fu totale. Poi, lentamente uno di loro si staccò dal gruppo e avanzò fino al palco, il pubblico assisteva col cuore sospeso.
-Chi è quest'uomo? Come è entrato qui?-
Tuonò l'aspirante oratore. Un poliziotto si avvicinò all'intruso e cercò di afferrarlo e buttarlo fuori, ma costui lo ignorò e si avvicinò di più rivolgendosi ai tre sul palco
-Come potete parlare di tolleranza voi che ci avete cacciati dalle nostre case e ora volete cacciarci anche dai nostri cimiteri…-
-Vuoi vedere che è una manifestazione politica?- Suggerì il giovane Oren all'orecchio della sua ragazza
-A me sembra di più una manifestazione di Purim- rispose questa mentre le sfuggiva un risolino divertito. Le tre personalità sul palco erano inviperite, arrivarono altri poliziotti di rinforzo e circondarono l'intruso, uno di loro disse minaccioso
-Fuori i documenti!- l'uomo rispose
-Non mi fate più paura con i vostri documenti, non ne ho bisogno, questa è casa mia.-
Ora non lo è più, ora è casa nostra- rispose l'archeologo.
Avete cacciato via la nostra gente ed ora volete cancellarne anche la memoria!- Accusò l'arabo, i tre ora lo avevano così vicino che potevano sentire l'odore della terra smossa.
Ma chi diavolo è?- Chiese il politico che doveva parlare. Nel pubblico cominciava a sopravvenire un certo malessere, un disagio ancora senza nome.
Dev'essere uno di quei morti che abbiamo sloggiato- rispose l'archeologo.
Siete fastidiosi anche da morti- sbraitò il portavoce dell'autorità israeliana per le antichità.
In Israele ci sono antichità dappertutto, se non costruissimo su vecchi cimiteri, non potremmo mai costruire-
Allora perché non costruite sui vostri?-
Nel pubblico serpeggiava ora una certa paura. Era chiaro che quegli uomini erano dei sovversivi pericolosi. Per di più mentre andava avanti il battibecco, altri ne erano arrivati, tutti abbigliati nello stesso modo e già erano in numero superiore alla gente del pubblico.
Io me ne vado- disse Yael alla sua amica Rivka che guardava il palco con la bocca aperta per lo stupore -Me ne vado, non mi piace, vedrai che hanno una bomba-
Di cosa ti lamenti?- Stava dicendo adesso il sindaco che era giunto nel frattempo
E' tutto regolare. La municipalità di Gerusalemme ha comprato il cimitero dal custode della proprietà degli assenti-
Noi non siamo assenti. Noi siamo qui da secoli, con quale diritto vendete e comprate il nostro luogo di riposo?-
La lunga processione intanto aveva avuto termine e i morti si erano seduti per terra come se volessero fare un sit-in.
Chi è questo matto?- Chiese il sindaco. L'archeologo gli disse piano all'orecchio
Non si preoccupi, è solo un morto-
Avete costruito un museo della tolleranza sopra le nostre ossa, come quando parlate di democrazia mentre torturate…-
Il sindaco stava perdendo la pazienza
So bene che non potete capire la tolleranza voi che siete un popolo di terroristi!- Disse la parola -terroristi- quasi gridando e con un tale accento che un brivido di paura attraversò il pubblico già in parte decimato.
Siete voi che vivete prigionieri nella gabbia del vostro odio, noi vogliamo solo riposare in pace-
Riposerete, riposerete- aggiunse il politico -i resti non li abbiamo buttati, li porteremo da un'altra parte dove saranno seppelliti-
-Non vi accontentate di cacciare le persone, volete deportare anche le ossa…-
-Tu non capisci- riprese il sindaco -tu non capisci l'importanza della cosa. Il museo è stato costruito per il centro Wiesenthal ed ha un alto valore etico. Ma di cosa sto a parlare con te…- e fece un gesto spazientito.
Ma è veramente morta tutta quella gente lì seduta?- Chiese con una certa apprensione la piccola Ilana a sua madre
Ma no- rispose questa, ma anche lei cominciava a spaventarsi -ma no, è una performance, non vedi?-
-Adesso basta! E' troppo! Morti o non morti ve ne dovete andare. Non si è mai visto un branco di straccioni tanto molesti!-
-Non possiamo. Questa è la nostra casa per sempre-.
Il sindaco telefonò con il suo cellulare, mentre qualcuno avvertiva nel microfono che il discorso di inaugurazione era rimandato, ma il pubblico, a parte qualche coraggioso o qualche curioso di vedere come finiva la faccenda, si era già defilato. Il portavoce dei morti si era frattanto seduto con gli altri.
-E' inutile parlare con loro, Amhed- disse uno dei morti mettendogli affettuosamente la mano sulla spalla. In pochi minuti la sala del museo fu piena di poliziotti che si buttarono sugli uomini seduti per sbatterli fuori, ma costoro non reagirono nemmeno alle manganellate, come se fossero acqua fresca e quando cercarono di afferrarli e trascinarli fuori di peso essi gli scivolavano di mano come anguille.
-Insomma, sparate!- Tuonò il sindaco. La polizia sparò e le pareti furono crivellate di colpi mentre il sit-in continuava in silenzio, imperterrito.
-Non si è mai vista una cosa del genere!- Gridò un ufficiale, ci vorrebbero delle granate-
-Ebbene prendetele, che aspettate!- Gridò il politico. Ormai erano così inveleniti che non potevano più fermarsi se non quando quei morti fossero stati definitivamente distrutti. Il sindaco aveva chiamato l'esercito il quale aveva provveduto a circoscrivere il museo dichiarandolo zona militare e a sloggiare tutti i curiosi.
-Non possono sfuggirci- dichiarò un ufficiale.
-Uccideteli tutti!- Gridò il sindaco rosso in faccia
-Non ci aveva detto che erano morti?-
-Morti o vivi, distruggeteli!-
L'esercito sparò all'interno con la mitragliatrice e poi con il cannone, dopo un po’ uno dei morti si fece alla soglia protestando
-Quando finirete di disturbare il nostro riposo?-
Le pareti del museo, che era costato 150 milioni di dollari, erano piene di buchi grandi come finestre, l'ufficiale disse
Non riusciremo mai ad aver ragione di loro con questi mezzi, ci vorrebbe il fuoco!-
Incendiarono l'edificio del museo e tra le fiamme attraverso i buchi aperti dalle palle di cannone poterono vedere il gruppo dei morti seduti in cerchio che meditavano o pregavano con un massabeh tra le mani.
-Non abbiamo altra scelta- disse l'ufficiale ordinando al soldato nell'elicottero di sganciare una bomba di una tonnellata sull'edificio.
-Non può esserci rimasto nulla là sotto, signor sindaco- disse l'ufficiale al primo cittadino che ora guardava allibito e smarrito le macerie del museo della tolleranza.
Più tardi vennero le ruspe e le macerie furono portate via, per un po’ non si parlò più del museo della tolleranza, chi aveva ancora voglia di costruire qualcosa su quella terra stregata?
-Finalmente un po’ di pace- disse Saleh all'amico Amhed.
-Già,- rispose costui, -ma dove diavolo saranno finite le mie ossa?-

venerdì 5 ottobre 2007

TRAPIANTO



Nell'ospedale Hadassa a Gerusalemme ovest Jawad stava morendo davanti alla disperata impotenza di sua madre Abir cui le lacrime avevano solcato il viso fino a lasciarle due righe scure sulla faccia impietrita. Il suo volto era pallido ed esangue sotto i folti riccioli neri. La coscienza lo aveva abbandonato, ma non aveva l'aria di uno che dorma, piuttosto di un annegato che avesse sbattuto più volte la faccia contro gli scogli e in tal modo si fosse procurato i lividi che gli scurivano il sopracciglio e la tempia. Gli occhi li aveva chiusi, ma non del tutto, sotto le scure frange della ciglia brillava un morto luccichio. Sapeva molto bene Abir qual'era stata la natura del mare in tempesta che si era abbattuto sulla giovane vita di Jawad. Il ragazzo era stato colpito dai soldati israeliani che avevano fatto una delle loro solite incursioni. Stava uscendo dalla scuola assieme agli altri studenti quando i proiettili avevano cominciato a fischiare attorno a loro. Era fuggito, ma uno di quei soldati lo aveva bloccato e colpito con il fucile facendolo sanguinare. Jawad era rimasto confuso dalle botte e in quel momento un altro gli aveva sparato. Abir aveva ricevuto perfino le scuse dell'esercito per quell' "incidente". Le avevano fatto il favore di ricoverare suo figlio nell'ospedale israeliano dal momento che quello di Gerusalemme est non era attrezzato per l'operazione di cui aveva bisogno. L'operazione però era stata inutile. E' sempre più facile distruggere che sanare.
In un'altra stanza dell'ospedale un'altra madre contemplava il volto pallido di suo figlio abbandonato sul cuscino. Il suo cuore non era più in grado di fare il lavoro cui era destinato e a meno di non trovarne un altro in buone condizioni per operare un trapianto a breve sarebbe certamente morto.
Morì prima Jawad benchè il suo cuore lo avrebbe servito bene, senza quelle pallottole, per il resto della vita.
Il medico parlava ora a sua madre Abir in un'accogliente stanzetta appartata. Le stava dicendo, con ogni riguardo possibile, che sarebbe stato un gesto generoso da parte sua acconsentire a donare il cuore di suo figlio ormai sulla via del non ritorno, che quel gesto avrebbe permesso ad un'altra persona di continuare a vivere. C'era giusto un altro giovane che sarebbe morto certamente e la cui vita dipendeva dalla sua decisione. Abir pensò al giovane soldato che aveva colpito Jawad e poi all'altro che lo aveva ucciso. Per un momento i suoi occhi si strinsero e la mascella s'irrigidì. Avrebbe dovuto permettere di vivere a un tizio affinchè uccidesse altri ragazzi palestinesi di modo che altre madri ne avrebbero avuto l'anima straziata come lei? Tacque per un lungo istante e il suo viso era impenetrabile. Il medico aspettò. Una rabbia sorda montava nel cuore di Abir, tuttavia anche il dono la tentava. Nei giorni trascorsi al capezzale di Jawad assistendo alla sua dolorosa agonia, aveva incrociato gli occhi tristi e la faccia abbattuta dell'altra madre, le sue spalle curve sotto il peso della sua disgrazia. Pensò che se avesse rifiutato si sarebbe comportata come loro. Non voleva usare quel momentaneo potere per provocare altra morte. Accettò. Subito dopo il medico uscì rientrando poi nella stanza con la madre israeliana che voleva ringraziarla. Abir si strinse nel soprabito, si tirò più avanti l'ijiab e uscì di fretta senza rispondere.
Fu così che Abner si ritrovò un cuore nuovo di zecca grazie al quale la falce della morte si allontanò da lui. Benchè avesse il nome di un generale, il ragazzo era sempre stato quanto di più lontano si possa immaginare da ogni idea di militarismo e di battaglie. Non solo nel fisico era gracile e deboluccio, ma anche l'indole aveva pigra e pacifica. Tuttavia non si sognava nemmeno di contravvenire a ciò che gli altri consideravano e lui stesso considerava il proprio dovere di cittadino. Ora poi, che aveva quel cuore perfetto, non ce n'era proprio ragione. Abner aveva 17 anni compiuti e non mancava molto tempo quindi alla messa in pratica di quel dovere. Si prese parecchie soddisfazioni ora che aveva ritrovato la salute. Andò a ballare in un locale di Tel Aviv e si divertì per buona parte della notte, dichiarò il suo amore a una compagna di scuola che non rispose né si né no, ma rise in un modo civettuolo e incoraggiante, sfidò a una gara di velocità un antipatico che lo aveva sempre lasciato indietro senza curarsi del suo cuore malato che gli impediva ogni sforzo. Gli sembrava di essere nato da capo, perché solo ora poteva finalmente vivere. Un giorno mentre passeggiava nella città vecchia di Gerusalemme, vide arrivare procedendo a una certa velocità una jeep militare. La jeep si fermò a pochi passi da lui e ne scesero dei soldati armati di tutto punto, nulla di straordinario. Gli parve che costoro venissero verso di lui e a un tratto il suo cuore cominciò a battere come un forsennato. Abner non capiva cosa lo spaventasse tanto. Perché si rese conto di avere paura, una paura che penetrava fredda in ogni fibra, non riuscì a dominarsi, a rimanere fermo, prima che il soldato lo raggiungesse, e probabilmente sorpassasse, scattò e prese a correre come un disperato. Si rifugiò in un portone, si gettò a sedere su un gradino prendendosi la testa tra le mani. Era affannato e gli mancava il respiro. Ora non aveva più paura e non riusciva a spiegarsi il perché di quella reazione. Pensò di avere approfittato troppo della sua nuova forza. In fondo era ancora convalescente e sia a livello fisico che emozionale ancora fragile. Parlò di questo turbamento ai suoi genitori e poi al suo medico. Fu deciso che Abner si sarebbe preso un periodo di riposo in una città di mare dove avrebbe potuto trascorrere la sua convalescenza. Partì per Eilat abbastanza contento. Trascorse i giorni passeggiando e frequentando gli ottimi ristoranti della città, visitò la torre sottomarina dove dai finestroni un'incredibile varietà di pesci lo scrutavano curiosi nella meravigliosa efflorescenza del mar Rosso, rimase incantato ad osservare le enormi testuggini marine strigliate per bene con una spazzola da due giovani, si tuffò in mare di giorno e passeggiò di sera senza mai più provare lo sgomento e la paura che lo avevano assalito a Gerusalemme.
Era partito all'inizio della primavera, alla fine dell'estate tornò a casa contentissimo con la testa piena di ricordi piacevoli, di nuovi amici e nuove avventure, con una sensazione di leggerezza incredibile. Ci pensò sua madre a fargli toccare di nuovo terra pesantemente. Era arrivato l'avviso per i colloqui preliminari al servizio di leva. A questi colloqui si sentì a disagio tanto che sedeva sulla punta della sedia per essere pronto a scappare. La faccia dell'ufficiale gli parve ambigua e temibile, come se nascondesse una minaccia, un pericolo, un tranello. Quando finalmente uscì all'aperto gli sembrò di poter respirare di nuovo liberamente.
Abner cominciò il servizio di leva con il cuore traboccante di angoscia e di oscuri presagi, due tre volte fu sul punto di progettare una fuga, una ribellione all'ineluttabile, ma poi ci ragionò sopra e si disse che erano tutte sciocchezze, strane sciocchezze ereditate assieme al cuore nuovo. Non aveva motivo per non compiere ciò che riteneva il suo dovere di buon cittadino, ma di nuovo l'imprevedibile lo aspettava al varco.
Nella città vecchia, la parte araba di Gerusalemme, un collega stava strapazzando una donna. Era una anziana contadina che cercava di vendere un paio di sporte di pomodori. Il soldato aveva preso a calci le cassette facendo rotolare i pomodori sulla strada poi afferrata la donna per un braccio l'aveva cacciata via con disprezzo. In quel momento un'altra donna più giovane, si era precipitata indignata sul soldato coprendolo di insulti. Abner era abbastanza vicino per vederla in volto, vide i grandi occhi neri pieni di luce cui la rabbia dava ancora più splendore, vide il volto pallido di una bellezza struggente. Il suo cuore si gonfiò di strani sentimenti che andavano dalla tenerezza alla nostalgia, alla devozione. Il soldato stava per colpirla quando Abner con uno scatto fulmineo afferrò il suo braccio per fermarlo. Litigò stancamente con costui e intanto la donna si era allontanata. Sconvolto Abner fece a piedi quasi correndo tutta Gerusalemme est, ma la donna era sparita. Il turbamento montava nella mente del giovane soldato. Quella donna…aveva un bel viso, ma quando mai si era messo a scrutare il viso delle donne palestinesi sotto l'ijiab? Per lui come per la maggior parte degli israeliani erano tutte uguali. E c'era un'altra cosa strana, quella bellissima donna non era certo una sua coetanea, forse avrebbe potuto essere sua madre. A questo pensiero il cuore gli si strinse con infinita pena e capì che aveva un desiderio intenso e struggente di abbracciarla. Con gli occhi colmi di lacrime scrutò la strada in tutte le direzioni pregando di rivederla.
A causa del suo strano comportamento l'esercito elargì ad Abner una licenza di alcuni giorni per malattia. Ora si trovava di nuovo a casa e ne provava un moderato sollievo. Quella notte faticò a prendere sonno e si rigirò svariate volte tra le lenzuola sbuffando. Quel cuore nuovo se da una parte gli permetteva cose impensabili prima, dall'altra cominciava a sentirlo come un corpo estraneo. Era un enigma, un mistero, qualcosa di sconosciuto in lui. Gli doveva un'intensità di emozioni che non avrebbe creduto potessero esistere, ma non tutte erano piacevoli. Che voleva quel cuore tanto spesso in disaccordo con la propria mente? Cominciava a fargli paura.
Si era appena addormentato quando un rumore di passi che si avvicinavano lo svegliò di colpo. In casa c'erano solo lui e sua madre, suo padre era via per faccende sue. Quello però non era il passo svelto e leggero di sua madre. Si tirò su nel letto, si mise in ascolto. I passi pesanti, lenti, cadenzati si avvicinavano. Abner fissava il buco nero della porta. Poi silenzio. C'era una figura immobile sulla soglia. Nella stanza era buio, ma dalla finestra chiusa filtrava un piccolo raggio di luce proveniente dalla luna piena che fuori illuminava a giorno con la sua lattescenza. Quando gli occhi gli si furono abituati alla scarsa luce della stanza Abner vide che il volto di colui che si era fermato nel vano della porta era livido e pesto. Fissandolo con tutte le forze si avvide che gli occhi erano spenti e dalle palpebre aperte a metà si vedeva solo il lucore dell'occhio che si stagliava nel buio. Non pensò neppure per un momento di cercare un corpo contundente con cui potersi difendere, era lampante che la creatura penetrata nella sua stanza non era viva. Si drizzò meglio a sedere nel letto e con la voce tremante domandò:
-Chi sei, che cosa vuoi?-
Alla sua domanda l'altro avanzò di qualche passo nella stanza, era ormai quasi accanto al suo letto e Abner adesso ci vedeva benissimo perciò scorse molto chiaramente il petto dello sventurato squarciato da un buco molto preciso e dentro quel buco, là dove doveva esserci il cuore, non c'era nulla.
-Sono venuto a riprendermi il cuore-
Rispose una voce che sembrava venire dalle profondità di una caverna, Abner sudava freddo. Aveva paura, ma anche un'immensa compassione. Il morto riprese a parlare:
- Non vi è bastato uccidermi, dovevate anche strapparmi il cuore?-
La sua voce adesso, pur sembrando sempre venire da posti cavernosi e profondi, era più chiara, più somigliante a quella che doveva aver avuto da vivo, una voce di ragazzo. Abner notò che non sembrava provenire dalla figura pesta e livida che vedeva.
-Non posso dartelo, vivo per mezzo di questo cuore, dartelo significa morire per me-
-Perché dovrebbe importarmi?-
-Ma a te non serve! Non è importante per te, dove sei adesso, avere o non avere il cuore!-
- Lo dici tu che non è importante. Io sono stato violato nella vita e nella morte. Il cuore che anela l'abbraccio di mia madre tu lo hai portato nel carro armato, il cuore che aspira ad annusare i profumi della salvia e del rosmarino alla finestra della mia casa tu lo hai portato al ceck-point, il mio cuore che amava la poesia e le canzoni della Palestina tu lo hai piegato alla vostra retorica…-
Mentre l'infelice ragazzo parlava Abner aveva sempre meno paura e sempre più pena. Era chiaro che egli non aveva il potere di riprendere ciò che era suo, quello che era stato era stato. Ma come lo sentiva ingiusto, crudele!
Quello che restava di Jawad era davanti agli occhi pieni di lacrime di Abner che forse per l'appannamento della vista dovuta al pianto ebbe l'impressione di vederlo come era stato da vivo. Ma poi, dopo un battito di ciglia allo splendido ragazzo si sostituì di nuovo il livido cadavere col petto squarciato. Ora stava voltandosi per uscire, per tornare ai vermi e alla terra, Abner lo richiamò indietro con un grido.
-Aspetta! Non posso ridarti la vita che ti è stata tolta, nemmeno rendendoti il cuore, ma posso prometterti che non vedrà mai più né armi, nè violenza, che tornerà a casa per abbracciare tua madre, che aspirerà solo i profumi di questa terra e mai mai l'odore dello zolfo e del fuoco!-
Abner si accorse che c'era la luce accesa, sua madre gli stava asciugando la faccia bagnata di lacrime e non riusciva a smettere di singhiozzare. La pena però si stemperava in una specie di sollievo, si sentiva il cuore liberato. Il giorno dopo in caserma arrivò una dichiarazione in cui Abner affermava di non poter più servire l'esercito per problemi di coscienza e anche …di cuore.

domenica 9 settembre 2007

DANNY E NIDAL

Danny e Nidal non si sono mai incontrati, ma sapevano tutto l’uno dell’altro. Erano i miei più cari amici. Vivevano ad una distanza minima l’uno dall’altro, minima ma incalcolabile, una distanza che non si è potuta mai colmare nel corso della loro vita.
-Un giorno ci incontreremo e vivremo insieme in modo normale- diceva Danny
-allora mi farai conoscere Nidal e andremo tutti e tre ad Haifa a fare il bagno-.
Intanto avanzava il muro, guardavamo con preoccupazione crescente le acrobazie che tutti i giorni dovevano fare i bambini per scalarlo o passare tra gli stretti varchi per poter andare a scuola, Nidal e io.
-Come sta Danny?- chiedeva Nidal mentre il suo sguardo verso il cielo cercava la mitragliatrice collocata sul muro che sparava automaticamente, cioè senza il cecchino, ogni volta che la fotocellula sentiva qualcosa di vivo muoversi, fosse pure un asino o un gatto. Sotto gli occhi vuoti della morte che tecnologicamente incombeva su di noi, parlavamo delle nostre vite e delle diverse difficoltà che ognuno di noi affrontava. Avevo conosciuto Danny alcuni anni prima quando incuriosita e affascinata dalla realtà del kibbuz avevo scelto di andarci a vivere per un po’ dividendo il lavoro e la quotidianità con i suoi abitanti. Avevo letto “I figli del sogno” il libro di Bruno Bettelheim che racconta dell’educazione dei bambini, di come vivevano tra loro in gruppi di uguali, senza i condizionamenti degli adulti.
-Non è mica più come una volta- diceva Danny –adesso i kibbuzim si stanno trasformando, lo stile di vita socialista viene meno e si avviano a diventare industrie.-
Se ne andò l’anno dopo per andare a vivere a Tel Aviv. Finita la sessione di esami tornai in Israele e lo incontrai in un locale frequentato da giovani della sinistra pacifista ed arabi israeliani.
-Lascia stare il kibbuz- disse –vieni a casa mia, vivo con altre quattro persone, sono sicuro che i miei amici ti piaceranno.- Lo accontentai. Restai con loro tutta l’estate, due dei ragazzi che abitavano con Danny erano gay, gli altri due una coppia. Era gente simpatica, parlavano tutti inglese perciò non avemmo problemi di comunicazione. L’ebraico non sono mai riuscita a parlarlo. L’anno dopo sarebbe dovuto venire lui da me a Roma, ma prima dell’estate si ammalò. Le notizie sulla sua malattia erano vaghe, non aveva un’idea precisa di cosa veramente avesse, ma si sentiva a pezzi. Quell’anno partii comunque, ma non per andare a Tel Aviv. Avevo cominciato a prendere coscienza di quanto fosse grave e insostenibile la situazione dei palestinesi e lo strano è che determinante per questo salto di qualità non era stato l’ambiente di sinistra che frequentavo a Roma, molto sensibilizzato sull’argomento, ciò che fu veramente determinante fu l’affetto grande e profondo che avevo per Danny. Scattò in me a causa sua quel qualcosa che permette di passare dalla teoria alla pratica, quella scintilla di passione, quella decisione presa col cuore oltre che con la mente. I palestinesi per me erano diventate persone vive e non solo un popolo in lotta per la propria libertà. Persone con occhi di ragazze e ragazzi come Danny che avevano tutti un futuro incerto e pieno di dolore, anche se, in diversi gradi e forme. Vidi con i miei occhi e sentii sulla mia pelle l’umiliazione dei ceck-point, vidi da vicino l’immane violenza fatta al territorio, bulldozer dappertutto, campi distrutti, villaggi rasi al suolo, cantieri ovunque deturpavano la faccia del paesaggio, le cui colline ferite da strade di aggiramento che collegavano gli insediamenti a Israele subivano lo strappo dai loro fianchi di aranceti e ulivi, perché gli alberi non collaborassero con la resistenza impedendo una maggiore visibilità e non permettendo che tutto fosse sotto controllo anche da lontano. Ne parlai con Danny che andai a trovare prima di tornare a Roma.
-Perché tanto accanimento contro la terra? Perché tanta determinazione a imbruttire, a stravolgere a umiliare un paesaggio che era stato bello?-
Danny mi guardò con un espressione di indicibile tristezza.
-C’é anche l’inquinamento prodotto dalle fabbriche che i coloni costruiscono lì per non incorrere nelle leggi a protezione dell’ambiente che in Israele sono severe e c’è il furto dell’acqua-.
Gli chiesi che cosa pensasse del mio impegno di interposizione nei territori.
-Fai una cosa bellissima- mi disse
- E sei anche coraggiosa-. Gli avevo raccontato che a un ceck point ero rimasta bloccata nove ore in mezzo alla gente senza poter andare né avanti né indietro e che in un'altra occasione mentre proteggevamo gli operai del comune che riparavano i danni fatti dai tanks dei soldati che il giorno prima erano entrati sparando all’impazzata mi avevano sparato intorno per un bel po’.
-I palestinesi riparano tutto immediatamente- disse Danny sorridendo
-Credo che lo facciano per rimettere a posto prima che gli venga la depressione-. Avevo notato anch’io questo rifiuto di scoraggiarsi, di darsi per vinti. Avevo appena conosciuto Nidal e lui più di chiunque altro mi dava questa impressione.
-Il mio amico Nidal mi fa sempre pensare a quello slogan delle lotte operaie “resisteremo un minuto più del padrone” dissi a Danny.
Nidal faceva parte dell’organizzazione che aveva accolto il nostro gruppo all’arrivo nei territori. Gli avevano distrutto la casa tre volte e lui tre volte l’aveva ricostruita. Sebbene avesse la nostra età, 24 anni, era già sposato e aveva due bambini. Danny aveva voluto che gli parlassi di lui. Nidal era laureato in lettere, la letteratura era la cosa che gli piaceva di più al mondo. Per tanto tempo aveva desiderato viaggiare e conoscere gente diversa, ma uscire dai territori non è facile.
-Siamo persone senza diritti- diceva –siamo non persone, mica possiamo andare e venire come ci pare, come fanno gli altri!-
-Come ha fatto- chiedeva Danny –a laurearsi, sposarsi e diventare padre così presto? La vita gli corre dietro come il vento? –
-Forse è la morte che gli corre dietro- dissi pensando ai soldati sulle torrette, alle strade distrutte, ai palazzi bombardati e al paesaggio violentato. Anch’io ero rimasta stupita della velocità con cui Nidal aveva tessuto la trama del suo destino, gli avevo detto:
-Quando penso a te mi sento una cretina con tutti gli esami che ho ancora da fare!- Nidal mi aveva risposto tranquillo:
-Tu hai tutto il tempo, tu puoi aspettare a finire gli studi, e poi adesso stai facendo qualcosa che ti arricchisce come essere umano. Il mio tempo non è come il tuo-.
- Si, il tempo nei territori occupati non era lo stesso che altrove. Lì si impiegavano due ore per fare un percorso di 2o minuti, lì si usciva per andare a lezione e si rimaneva tutto il giorno al ceck point, oppure si usciva dal lavoro e non si poteva tornare a casa perché il ceck point era chiuso… non mi era venuto in mente che proprio quello spreco di ore, di vita, rendesse poi necessario fare tutto più in fretta. Più tardi capii quanto gli studenti palestinesi prendessero sul serio lo studio. Nidal aveva studiato con accanimento, a lume di candela, battendo i denti dal freddo, come se ne andasse della sua vita, nella casa mezzo distrutta e i carri armati per strada. A dispetto della chiusura forzata delle scuole, della difficoltà di arrivare all’università, del coprifuoco e dei bombardamenti.
-Quando andavo all’università i professori concordavano con gli studenti programmi di studi intensissimi perché prevedevano che l’università poteva rimanere chiusa per mesi e mesi e noi non volevamo perdere gli anni- mi disse.
Nidal mi aveva fatto conoscere la letteratura palestinese, in particolare Gassan Kanafani, uno scrittore ucciso a 37 anni dal Mossad in un attentato. Avevo letto due volte “Uomini sotto il sole” e altri suoi racconti tradotti dall’arabo.
-E’ incredibile- dissi a Danny –lo spreco di ingegno, di bellezza che avviene tutti i giorni.- Di questo scrittore mi avevano colpito l’abilità narrativa e la profonda umanità, chissà che capolavori avrebbe scritto se non avessero spento la sua vita, chissà cosa ci avrebbe ancora lasciato!-
Da Tel Aviv ero partita con una strana sensazione. Una cosa latente che non avevo avuto il tempo di approfondire presa com’ero da tante emozioni. Avevo passato quasi due mesi in Cisgiordania e Gaza e solo gli ultimi due giorni con Danny. Avevo imparato una quantità incredibile di cose, i miei occhi si erano riempiti di colori e detriti, di ferite e di speranza, di abbracci strette di mano atti coraggiosi, avevo conosciuto Nidal e avevo sperato che saremmo stati amici tutta la vita, poi a un tratto il pensiero diventò chiaro e capii cos’era che attraversava tutte quelle esperienze come una linea nera e mi turbava. Danny era stato proprio strano. Triste, silenzioso, mi aveva ascoltava con attenzione, ma aveva parlato poco. Quando avevo nominato “Uomini sotto il sole” poco c’era mancato che piangesse e capii che l’aveva letto. Non mi aveva detto una sola parola sulla sua salute, ora che ci pensavo, e io non avevo domandato perché la mia mente e il mio cuore traboccavano di altre emozioni. Lo chiamai al telefono per sapere.
-Ho l’aids- disse. Quelle due parole diventarono un vortice, un buco nero che ingoiò la materia il tempo e lo spazio Non sapevo come ritornare su come aggrapparmi ai bordi del nulla, come riempire il silenzio. Mentre annaspavo nel vuoto la voce di Danny dall’altra parte del telefono
-Hei ci sei? E’ caduta la linea?-
-Sono qui – dissi.
Tornai qualche mese dopo appena mi fu possibile, perché volevo vederlo. Lo trovai in ospedale. Era pallido e dimagrito, ma stranamente allegro. Mi confortò, mentre io avevo voglia di fuggire lontano, quasi di mettermi a gridare. Come faceva ad essere così sereno?
–Dai, non fare quella faccia- mi aveva detto –ora sto molto meglio!- Mi chiedevo come era stato prima. Non riuscivo a guardarlo in faccia perché vedevo la sua fragilità, la sua precarietà. La pelle del suo viso sembrava trasparente, i suoi occhi lucenti forse di notti febbricitanti forse per le medicine. Non riuscivo ad accettare la sua malattia, non volevo saperne di accogliere quella traumatizzante novità. Forse anche lui aveva lottato contro questa irruzione repentina della morte che si faceva spazio e per questo era così triste quando lo avevo incontrato di ritorno da Ramallah.
-Mi piacerebbe che potesse venire Nidal, solo una volta-
La mia espressione diventò forse ancora più disperata perché Danny aggiunse subito
-Non importa, gli parlerai tu di me, lo farai vero?- domandò mentre mi scostava un ricciolo dagli occhi con un gesto che somigliava a una carezza.
-Tu sei una persona preziosa- disse Danny salutandomi –Sei come un ponte che collega due sponde di un fiume, una preghiera che collega la terra al cielo.-
Prima di tornare a casa passai il ceck point e andai a casa di Nidal. Ero felice di vederlo. Era assieme alla giovane moglie e ai due bellissimi bambini vivaci, ma disciplinati. Leyla aveva preparato dei dolcetti che somigliavano moltissimo ad altri che avevo mangiato l’anno prima a casa di Danny e dei suoi amici, ma non osai chiedere se erano dolci palestinesi o ebraici, certamente mi avrebbe risposto che erano palestinesi.
-Perché sei così triste?- Disse Leyla all’improvviso.-Sono triste?-
-Altrochè- confermò Nidal –E’ tutta la sera che fai finta di niente, ma non ci riesci.- Raccontai loro del mio amico Danny, i sorrisi si spensero e un po’ mi dispiacque di averli tirati dentro la mia tristezza.
-Adesso ci sono delle cure nuove- disse Nidal come per consolarmi
-Vedrai che Danny ce la farà, che diavolo è già così poca la gente per bene mica se ne può andare !-
La sua protesta riuscì a farmi sorridere, lo avrei abbracciato.

Non siamo in Africa dove la gente non può curarsi, qui la medicina e la scienza sono all’avanguardia che credi?-
Disse Danny davanti al mio stupore alla mia successiva visita. Era il ritratto della salute, si era ripreso completamente, anzi, non lo avevo mai visto così bene. Allo stupore iniziale seguì una cauta gioia, subito turbata dal pensiero di cure eccessive che producevano una salute pompata, finta. Benchè Danny avesse un bellissimo aspetto la malattia stava lavorando dentro di lui al servizio della morte. Lui si comportava come se fosse acqua passata e non ne parlava, sembrava tornato quello di sempre. A poco a poco anche i miei sospetti si acquietarono e cominciai a credere ad una progressiva guarigione, Forse era quello che a Danny serviva per continuare a vivere, perché non doveva essere facile arrivare in fondo alle giornate quando la gente lo guardava come un condannato a morte, o spiando sulla sua faccia il cedimento, l’indizio della fine.
Dopo la mia visita restammo in contatto quasi quotidiano con lunghe comunicazioni via email e chiacchierate al telefono. Danny aveva deciso di venire con me nei territori occupati appena ci sarei ritornata.
-E’ ora che faccia qualcosa di concreto anziché parlare soltanto- aveva detto
-finchè sono in tempo-
-che significa finchè sono in tempo?- domandai allarmata
-tranquilla, significa che c’è un tempo per ogni cosa e che può passare il momento giusto per un’azione anche se resti vivo-. Mi pentii del mio tono allarmato, non gli facevo del bene permettendo alla mia ansia di uscire allo scoperto.
-Voglio anche conoscere Nidal- aggiunse.
Successivamente raccontandolo a Nidal avrei visto i suoi occhi diventare lucidi e avrei sentito quasi fisicamente l’ondata di tristezza che passava da me a lui e poi da lui a me.
-Anch’io avrei voluto conoscerlo disse.
Con Danny avevamo concordato tutto, sarei andata prima da lui, poi mi sarei messa in contatto con Nidal e saremmo partiti insieme per Tulkarem. Il giorno prima di partire mentre mettevo frettolosamente assieme i pochi bagagli squillò il telefono. Lì per lì non riconobbi la voce di Noam al telefono. Noam era uno dei giovani che vivevano con Danny. Quando lo capii fui presa dal panico perché temetti brutte notizie. “Ecco” pensai “ecco che si è aggravato un’altra volta, lo sapevo che non era così facile guarire.”
-Cosa stai dicendo? Dead? Che vuol dire? Ci siamo sentiti ieri hai voglia di scherzare?- No, non poteva essere. All’improvviso non capivo più l’inglese, le parole di Noam cascavano nel mio orecchio come un grappolo di incomprensibili suoni. La mia capacità di recepire si congelò, poi una sferzata di tristezza che non mi abbandonò fino al momento della partenza e mi rese molto stanca. Perché partii come avevo programmato e come avevo programmato andai prima a Tel Aviv dove feci appena in tempo a vederlo un’ultima volta, a salutarlo.
A Tulkarem c’era stata un’incursione si sentivano ancora gli spari, ragazzini di quindici anni giravano con il kalashinkoff in spalla, arrivai a casa di Nidal al colmo dell’angoscia. Dopo poco ricominciarono a bombardare vicinissimo a noi. C’era la sorella più giovane di Leyla che piangeva per la paura, avevo paura anch’io, Leyla si sforzava di distrarre i bambini. Non mi era mai capitato di stare sotto un bombardamento, è una cosa sconvolgente. Mi sforzavo di rimanere calma, ma guardandomi le mani le vedevo tremare, non mi sentivo più le gambe. Il mio corpo andava per conto suo senza badare a me. A un tratto Nidal disse:
-Adesso basta!-
Spense la televisione che trasmetteva le notizie del telegiornale e mise un disco di musica classica, Leyla fece un caffè aromatizzato e portò dei dolci. Bevevamo il caffè e mangiavamo dolci mentre le bombe cadevano intorno a noi.
“Sono matti questi palestinesi” pensai, però ci sentimmo tutti meglio.
Quando finalmente la finirono vedemmo che c’era una voragine davanti a casa, per un soffio non avevano distrutto la casa di Nidal per la quarta volta e con noi dentro.
Mi domandavo con quale coraggio quei piloti potevano bombardare una città piena di gente con la scusa di colpire dei ricercati che in quel momento non stavano facendo niente. Mi chiedevo come potevano dormire la notte sapendo quello che avevano fatto. Mi ricordai di Danny quando mi aveva detto:
-la società israeliana si è imbarbarita, è cascata in una specie di ottundimento, di delirio.-
Danny si era rifiutato di entrare nell’esercito e per questo era stato molte volte in prigione, -Non hanno più il senso del limite- diceva.
Forse per superare il trauma subito parlammo tanto quella sera, Nidal raccontò di quando era stato ad Ansar 3 il carcere nel cuore del Neghev, in mezzo al deserto. Sapevo che era una specie di lager, ma lui non parlò delle sofferenze patite, quelle erano date per scontate, raccontò di quando avevano organizzato uno spettacolo teatrale: erano andati avanti a recitare fino a che i soldati avevano fatto irruzione e buttato i gas. In quelle condizioni facevano del teatro! Ero rafforzata nella mia convinzione: erano proprio matti. Raccontò di quei giovani che venivano da un campo profughi di Gaza, Brazil, che non erano mai andati a scuola e che nel carcere impararono a leggere e scrivere, impararono la storia, o di quando avevano fatto crescere delle piantine verdi per illuminare il deserto. Li avevano portati lì per abbatterli moralmente e loro avevano fatto fiorire il deserto! Nel carcere c’erano medici, professori universitari, ingegneri, chi sapeva qualcosa la insegnava agli altri, tutti imparavano l’ebraico e l’inglese, anche Nidal aveva migliorato il suo ebraico. La gente di Gaza e della Cisgiordania normalmente non può incontrarsi, ma lì nel carcere c’erano prigionieri tanto di Gaza che della Cisgiordania, trasformavano quella che doveva essere nell’intento degli israeliani una situazione di estremo abbattimento e depressione in un’occasione per scambiarsi notizie, idee, di discussione e dibattito politico. Ad Ansar1 nel sud del Libano Salah Tamari aveva scritto questa canzone:
“…Fate il filo spinato più spesso e i muri più alti
E portate nella tenda il resto della mia famiglia e i miei amici
O crocefiggete sotto il sole ardente un ragazzo
O date la morte a un vecchio uomo
Ma Ansar canterà sempre per l’alba
Potete impedire al sole di alzarsi?
L’alba è mia, il sole è mio, la terra è mia.”
Ancora una volta rimanevo stupita e ammirata dall’ostinazione a vivere di questo popolo che srotolava il suo quotidiano sotto il tiro dei cecchini, senza perdere mai la dignità. Leyla era preoccupata e angosciata per i bambini:
-Hanno visto troppe tragedie e ne vedranno ancora, come potranno crescere? Una volta molti di noi sarebbero vissuti volentieri in pace con loro, ma è sempre più difficile pronunciare parole di riconciliazione-
-Con gli accordi di Oslo ci eravamo fatti delle illusioni- disse Nidal, -ma la verità è che non dobbiamo aspettarci molto dall’alto, è la società civile che deve inventare percorsi alternativi, altrimenti la pace non verrà mai anche se i leaders dovessero, per miracolo, trovare un accordo domani. Dentro di noi non sarebbero strappate le radici dell’odio. Dobbiamo educarci alla pace proprio mentre cadono le bombe.-
Caro Nidal, come faceva ad avere questa forza? Il suo non era un discorso retorico, le bombe erano appena cadute.
Danny diceva che la società israeliana era in stato di psicosi avanzato e che sopravviveva rinchiudendosi su se stessa, lui pensava che bisognava far saltare questa difesa questo muro di indifferenza raccontando la verità.
-Certo- disse Nidal –abbiamo degli interlocutori, dobbiamo fare ciò che possiamo insieme perché i nostri figli abbiano un futuro migliore e non affoghino nell’odio-. Avevo nominato Danny ed ecco che lui era improvvisamente presente tra noi. Per un istante allucinato mi parve di vedere il suo sorriso, che strano, guardando Nidal notai che gettava uno sguardo nello stesso punto dove era comparso per un secondo il viso sorridente di Danny. Per il guizzo di un istante eravamo stati davvero insieme tutti e tre.
Porterò sempre con me la tristezza di Danny e il coraggio di Nidal come doni molto preziosi. Spesso nei miei sogni ci incontriamo tutti e tre percorriamo il paese in macchina da Rafah a Tulkarem da Tel Aviv a Eilat e andiamo a fare il bagno a Haifa. Se l’odio è contagioso anche la fiducia, l’amore, l’amicizia sono contagiosi, forse se corriamo molto velocemente con tutta la forza che abbiamo, forse ce la facciamo ad arrivare un momento prima della catastrofe. Nidal mi ha detto, l’ultima volta che gli ho telefonato, del progetto che sta portando avanti con altri palestinesi e israeliani: organizzano incontri tra bambini delle due parti, i bambini scrivono, con l’aiuto di due redattori adulti uno palestinese e uno israeliano, un giornale bilingue. Hanno una sede ad Haifa ed una a Tulkarem, spesso i due gruppi di bambini si incontrano e stanno insieme per un breve periodo. Leyla, mi ha detto, mentre lui era al telefono con me stava aiutando i bambini a preparare i pacchetti dei regali per i loro amichetti israeliani che dovevano arrivare quel pomeriggio, se li facevano passare al ceck point. Organizzare questi incontri era sempre una scommessa, frutto di trattative infinite e stressanti e a volte era anche pericoloso, ma non avevano nessuna intenzione di farsi scoraggiare, né intimidire. Durante uno di questi incontri un bambino israeliano gli ha detto che se i soldati cercheranno di distruggergli la casa un’altra volta, lo aiuterà lui a difende

Da "Pace non è solo assenza di guerra, ma dove la vita fiorisce"
Marea, 2004 AAVV

sabato 4 agosto 2007

Chi non ha radice
a cui l’anima radicare
lo sguardo volge
nell’interno abisso.


Vede il centro
solo chi è al margine
e sconsolato cammina
sull’orlo del vuoto.


Altrove volterebbe
la faccia
ma sottrarsi non può
all’oscuro privilegio
di veggenza.


Galoppo di sogni
nella mia notturna mente.
Sono l’urlo e il sorriso.
Soffro la desolazione
del mondo, che mi percorre,
e di me in esso,
impotente.

mercoledì 1 agosto 2007

Giornata della memoria


"E' avvenuto, quindi può accadere di nuovo". Queste parole di Primo Levi sono state premonitrici della realtà presente dove possiamo constatare che lo spirito assassino che ha potuto programmare la Shoah, non è morto ed è pronto a nuovi stermini. La strage della città di Falluja è stata perpetrata nello stile della più genuina tradizione nazista. Oggi come allora la vita umana è disprezzata e calpestata. Assistiamo tutti i giorni alla continua strage di innocenti civili in Irak come in Palestina. Assistiamo alle centinaia di morti in mare di chi tenta di fuggire alla guerra e alla persecuzione, alla fame e alla tortura. Ma se riescono a toccare terra poi sono rispediti nel loro buio destino. Tutti ricordiamo la Cap Anamur bloccata in mezzo al mare sotto il tiro dei fucili e navi cariche di sventurati che fuggivano a una morte o a un'altra morte furono respinte da una costa all'altra, da un paese all'altro. Proprio come già era capitato agli ebrei che fuggivano dalla persecuzione nazista, respinti, benché si sapesse che li aspettava il campo di sterminio. Molti crimini, non solo ai danni degli ebrei, non sono stati mai puniti e documenti che solo quando è stato troppo tardi hanno visto la luce, sono rimasti nascosti nel famoso armadio della vergogna per 50 anni.
La memoria della Shoah avrebbe dovuto produrre degli anticorpi al male, permettere la nascita dei valori della convivenza, della tolleranza, dell'accettazione dell'altro da se, avrebbe dovuto promuovere la capacità di comprendere empaticamente il dolore altrui e far nascere la coscienza che ogni popolo ha diritto ad avere una terra in cui vivere senza oppressori.
Sappiamo che non è stato così. Da quando l'Europa davanti alla tragedia della Shoah disse mai più nel mondo sono state combattute quasi 90 guerre. Sono nate le varie Guantanamo e la tortura è diventata una pratica accettabile purché venga inflitta ai "nemici combattenti". Gli ebrei erano chiamati scarafaggi ed è lo stesso appellativo che taluni coloni usano per i palestinesi mentre gli iracheni hanno bisogno di tutela perché sono sottouomini e tali sono in generale gli islamici, appartenenti a una civiltà inferiore. Personaggi che teorizzano queste tesi razziste vengono premiati e riconosciuti, vendono la loro merce a centinaia di migliaia di copie. Il parallelo che voglio fare con la sorte toccata agli ebrei è evidente: una volta disumanizzato, svalutato come essere umano, il nemico o ciò che si ritiene essere il nemico, si può annientare senza rimorsi.
Il valore di questa giornata della memoria risiede nel ricordare ciò che è accaduto perché la memoria diventi vigilanza perché tutto non si ripeta di nuovo. Magari, non ripresentandosi mai la storia in modo perfettamente uguale, contro un altro popolo.
Credo non ci sia modo migliore per onorare il ricordo della Shoah che questa attenzione, questa vigilanza sul presente perché non accada mai più che a qualcuno sia tolto il diritto alla vita perché è ebreo, islamico, palestinese, migrante, donna o semplicemente povero.


Discorso tenuto durante la celebrazione della "giornata della memoria" organizzata dal comune di Bassano in Teverina nel 2005

mercoledì 25 luglio 2007

Una giusta informazione rende un grande servizio alla pace, crea una sensibilità e una coscienza tra le persone, ma questa responsabilità non è avvertita dai media che divulgano notizie confuse e tronche, si interessano solo ai fatti eclatanti come gli attentati, mentre non dedicano spazio alle lotte non violente come quella che si sta svolgendo da più di un anno a Bilin.
I giornali e i telegiornali che ci informano delle quotidiane uccisioni di palestinesi, si limitano a darci il numero delle vittime e passano ad altre notizie, non così se un rudimentale razzo kassam investe, spaventandoli, i cittadini di Sderot, se poi uno di questi ordigni, poco più che giocattoli fatti in casa, che hanno ucciso 6 persone in alcuni anni, uccidono qualcuno, allora piovono servizi approfonditi che ci raccontano passato e presente della persona colpita con tutti i particolari, così che possiamo commuoverci sulla sorte della vittima e verificare quanto sono barbari questi palestinesi, che non sono una popolazione civile con persone che vedono spezzate le loro vite e il loro futuro tutti i giorni, ma un manipolo di miliziani vestiti di nero e verde o con il volto coperto dalla kefia che attentano barbaramente alla sicurezza degli israeliani. Sicurezza: con questa vuota parola vengono giustificati quotidiani massacri, demolizioni di case, furto di terre, soprusi e crudeltà gratuite di ogni genere. L'ipocrisia dei giornalisti non si dilunga a raccontare come mai l'unica democrazia del Medio Oriente spari sui pulmini pieni di bimbi uccidendo una maestra, come leggi razziste dividano le famiglie, non ci raccontano della procedura dell'asino, né delle torture e dei carceri segreti nel cuore del Neghev, non ci raccontano di quel contadino che ha protestato perché i coloni stavano coltivando il suo campo e quando sono venuti i soldati lo hanno arrestato perché non disturbasse i ladri, non ci raccontano che i palestinesi non possono viaggiare sulle loro strade riservate ai soli coloni, né che non possono possedere una macchina con targa israeliana, ultima trovata dell'apartheid. Una nuova legge recita che i cittadini israeliani non possono dare un passaggio ad un palestinese: non ci devono essere rapporti se non di guerra. Si dice che entrambi i popoli abbiano ragione e che Israele ha diritto alla sicurezza e i palestinesi a uno stato. Questo porta ad una situazione di stallo. Come si può intervenire se entrambi hanno ragione? Da qui l'equidistanza, o equivicinanza secondo l'ultimo neologismo per coprire la verità. Gli israeliani hanno diritto alla sicurezza: e allora perché il governo e l'esercito fanno di tutto per provocare attentati? Perché deridono tutti i tentativi di tregua da parte del tanto criticato Hamas o quelli di intervento internazionale come l'ultimo proposto dall'Italia, Spagna e Francia definito nientedimeno che "impedimento al progresso"? Perché si guardano bene dal prendere in considerazione la proposta dei paesi arabi, che offre pace completa in cambio della restituzione dei territori occupati del Golan siriano e di Gaza e Cisgiordania? Anche i palestinesi hanno diritto alla sicurezza prima ancora che a uno stato. In realtà questa formula: gli israeliani hanno diritto alla sicurezza e i palestinesi a uno stato significa che gli israeliani possono fare quello che vogliono senza essere soggetti a critiche giacchè lo fanno per la sicurezza, mentre i palestinesi se ne devono stare buoni nei loro bantustan, nelle loro città e villaggi circondati e divisi dal muro, enclaves che possono anche chiamare stato. Se si osservano le cartine si vede bene lo spazio che è rimasto ai palestinesi dal 48 ad oggi, praticamente niente. Qualcuno dovrebbe spiegarci dove dovrebbe essere fondato lo stato palestinese, sulla luna? Quando l'ONU divise in due la Palestina e i palestinesi rifiutarono questa soluzione, furono criticati e da allora Israele accusa "Non hanno voluto accettare la spartizione! Per quale ragione avrebbero dovuto accettare? Era la loro terra. Dallo studio di Eli Aminov apprendiamo che "Nel periodo in cui iniziò l'insediamento sionista il popolo palestinese venne interrotto nel bel mezzo di un intenso processo di attuazione delle caratteristiche che conformano una moderna nazione all'interno della loro patria. Il grado di urbanizzazione dei palestinesi era particolarmente elevato per un paese del Medio Oriente, La Palestina era uno dei paesi più sviluppato nel campo tecnologico dell'intero Medio Oriente. Le città servivano da connessione, collegando la società locale alle trasformazioni, alle innovazioni, alle invenzioni e alle nuove idee del mondo intero divenendo al tempo stesso laboratorio per lo sviluppo delle idee nazionalistiche. Nel 46 in Palestina c'erano 11 città con più di diecimila abitanti, di esse tre avevano una popolazione araba di circa 70mila ciascuna: Jaffa, Haifa e Gerusalemme. Nelle grandi città non erano sviluppati solo il commercio, le banche, l'industria leggera e i trasporti, ma anche la vita culturale. La distruzione delle città palestinesi ed il blocco della loro crescita, per il loro ruolo di punti focali al concretarsi della coscienza nazionale palestinese, fu uno degli obiettivi principali di coloro che ebbero la responsabilità degli "Affari arabi" nei successivi governi israeliani. La città palestinese, che in contrapposizione al villaggio fatto di tribu e clan si sviluppa popolata da individui che formano nuove connessioni sociali, personali e culturali è stata sempre una minaccia per l'identità israeliana che si è costruita sui miti del sionismo che ha stampato nella coscienza collettiva israeliana l'immagine dei palestinesi come contadini o beduini, banditi e pastori. Ad Hebron la distruzione urbana è stata portata a termine tramite lo sviluppo degli insediamenti, che cominciò in una zona e dilagò trasformando il centro di Hebron in un altro pianeta per la popolazione locale. Ad Hebron sono state messe in pratica tutte le forme di penetrazione sionista, così come controllare la popolazione palestinese che Israele vi ha raccolto fin dal 48 limitando in particolar modo la moderna mobilità ed impedendo il processo di urbanizzazione e di industrializzazione. Gli insediamenti, il furto della terra, le strade di attraversamento riservate, la divisione della città, il blocco allo sviluppo e la mancanza di connessione tra la città e la sua periferia rurale, per la quale essa funge da capoluogo regionale, hanno trasformato Hebron in un insieme di quartieri separati senza alcuna integrazione. Nell'analisi finale, la politica di Israele di de-urbanizzazione è parte di un processo di genocidio il cui scopo è l'estirpazione del popolo palestinese come entità nazionale."
L'occupazione ha fatto in modo che l'intera società palestinese diventasse sempre più agricola e infine ha strappato ai contadini i loro mezzi di sussistenza con il furto della terra, che con il muro ha raggiunto livelli vertiginosi aumentando l'impoverimento fino all'inverosimile e riducendo un popolo intelligente e sviluppato ad una nazione di mendicanti che ha bisogno degli aiuti internazionali per sopravvivere, e per ultimo anche quegli aiuti sono stati sottratti, in accordo e complicità con Israele, in un embargo che ha del surreale. Dove mai si è visto un embargo a un popolo sotto occupazione? L'impoverimento enorme dovuto all'occupazione ha fatto si che molti interventi, pure giusti, di sostegno alla società civile palestinese si configurassero sempre più come un intervento umanitario. Secondo un rapporto dell'UNICEF a Gaza muore un neonato malato su tre semplicemente perché non ci sono più medicine e farmaci essenziali, muoiono di malattie molto comuni perché non hanno accesso a centri sanitari, trattamenti medici o farmaci adeguati e Israele impedisce loro di essere curati altrove. In Cisgiordania a causa della malnutrizione un bambino su 10 ha un ritardo di crescita, a Gaza uno ogni nove, ma il problema della Palestina non è umanitario, è politico. Senza l'occupazione i palestinesi se la vedrebbero benissimo da soli. Così le toppe che la UE in passato ha messo alla situazione, con gli aiuti sono state sempre vanificate da un successivo intervento di Israele, e una scuola, un porto una qualunque infrastruttura pagata dalla UE se ne andava in pezzi in un attimo dopo un incursione, un bombardamento. E' ora che la società internazionale prenda posizione politicamente a favore delle vittime e che smetta di fare ricatti odiosi.
Attualmente il governo israeliano si è dotato di un nuovo democratico, il fascista Liberman, l'unica democrazia del Medio Oriente non si è sconvolta affatto per questo nuovo acquisto e la ragione è che sebbene Liberman sia il peggio che si possa immaginare, non è fuori dai progetti sionisti, la differenza tra lui e gli altri è che lui dice ciò che gli altri pensano senza dirlo. Il problema di Israele è il sionismo e la fissazione dello stato teocratico per soli ebrei, questo semplice fatto impedisce una vera democrazia. "L'uccisione di bambini palestinesi non è un crimine nello stato di Israele ebraico e democratico" scrive Nurid Peled, scrittrice israeliana pacifista, "Questa crudeltà che non si esprime a parole, questo modo organizzato, meditato, di maltrattare le persone , che i migliori cervelli israeliani oggi sono impegnati a PIANIFICARE E PERFEZIONARE, tutto ciò non è nato dal nulla. E' il frutto di un'educazione fondamentale, intensiva, generale. I figli di Israele sono educati in un discorso razzista senza mezze misure. Un discorso razzista che non si ferma ai ceck-point, ma regola tutti i rapporti umani in questo paese. I figli di Israele sono educati in modo che considerino il male che, dalla fine dei loro studi, dovranno far passare da virtuale a concreto, come qualcosa di imposto dalla realtà nella quale sono chiamati a lavorare. I figli di Israele sono educati in modo che considerino le risoluzioni internazionali, le leggi e i comandamenti umani e divini, come parole vuote che non si applicano a noi. I figli di Israele non sanno che c'è un'occupazione, si parla loro di "popolamento". Sulle carte dei manuali di geografia i territori occupati sono rappresentati come zone facente parte di Israele o sono lasciate bianche e indicate come "zone sprovviste di dati", detto in altri termini "zone disabitate". I figli di Israele ne sanno di più sull'Europa -patria della fantasia e ideale dei dirigenti del paese- che sul Medio Oriente dove vivono e che è il focolare originario di più della metà della popolazione israeliana. I bambini ebrei nello stato d'Israele sono educati a dei valori umani di cui non vedono nessuna concretizzazione attorno a loro.
Israele ha complici, ma non ha amici. Coloro che sostengono il suo diritto di difendersi, non sono veri amici. Veri amici sono i pacifisti e i dissidenti israeliani e chi li appoggia. Sono loro la vera coscienza di Israele e quando la popolazione israeliana si sveglierà sarà loro che dovrà ringraziare. Israele si fa scudo dei deportati e della Shoah, pretende crediti che non sono stati mai concessi a nessuno stato e lamenta di essere in pericolo. Quegli stessi reduci dei campi di sterminio, apprendiamo da un editoriale di Haaretz, sono lasciati nell'indigenza, dallo stato che preferisce spendere i soldi in nuove armi da testare sulla popolazione martire di Gaza e che ha usato ai danni di quella del Libano. Noi, ebrei dissidenti della rete Eco e di Ejjp pensiamo che bisogna smetterla di trattare Israele come uno stato a parte che bisogna criticarlo e quando non ci sente, sanzionarlo come si farebbe con qualsiasi altro stato. Come cittadini europei non vogliamo restare in silenzio di fronte a crimini commessi contro una popolazione prigioniera e sotto occupazione, vittima di eventi della storia europea.
Come ebrei, non commetteremo lo stesso errore che abbiamo spesso rimproverato ad altri: restare in silenzio di fronte a crimini contro l'umanità.

martedì 24 luglio 2007

LA PALESTINA RACCONTATA AI BAMBINI

IL CANTO


Caro Shadi, tu non mi conosci. Ti ho visto in un filmato sulla Palestina, correvi come il vento su un pattino solo per le strette vie del campo, poi, ti sei fermato in mezzo a un nugolo di altri bambini e hai fatto il segno della vittoria con la manina. E' da allora che voglio raccontarti questa storia. Il protagonista è un bambino piccolo come te e anche lui si chiama Shadi. La nostra storia comincia in un tempo quando non c'erano ancora i campi dei rifugiati dove ora tu vivi, c'erano ancora le colline piene di alberi di ulivo e la primavera spargeva intorno meravigliosi profumi. Su una di queste colline sorgeva la casa di Shadi, circondata da alberi da frutta e da ulivi. In primavera crescevano anche tanti fiori e d'estate i campi si riempivano di rossi papaveri. Il nostro eroe giocava tutto il giorno per quegli spazi aperti, perché era ancora troppo piccolo per andare a scuola come i suoi fratelli che invece dovevano studiare e fare i compiti prima di uscire a giocare. La sua famiglia aveva degli animali, ma il più stretto compagno di giochi del bambino era un piccione, anzi, che dico, piccione, era una splendida colomba bianca. Shadi aveva tentato di darle un nome per poterla chiamare, ma qualsiasi nome pensasse non gli sembrava adatto a lei così rinunciò, perché poi alla fine non si può dare un nome a un essere libero e alato che può volare e andarsene a suo piacimento oltre ogni confine e ogni delimitazione di proprietà. Inoltre non aveva nessun bisogno di chiamare la colomba perché essa non lo lasciava mai e dov'era lui volava lei. Shadi parlava con la colomba come se fosse una persona ed era sicuro che lei lo capisse. Quando litigava con Nabil che era il più grande e per questo pretendeva di aver ragione, o quando la mamma insisteva per fargli mangiare l'hummus che non gli piaceva, o quando il babbo lo sgridava perché non si era rifatto il letto e aveva lasciato in giro i gessetti colorati con cui gli piaceva disegnare, Shadi se ne lamentava con la colomba e le raccontava quanti soprusi doveva subire solo perché era il più piccolo della famiglia. Suo fratello Murad lo prendeva in giro per questo:
-Sei proprio stupido, come puoi pensare che la colomba capisca quello che dici? E' soltanto un animale!-
Shadi se ne andava tutto imbronciato senza rispondere. Dentro di sè pensava che era Murad ad essere stupido e stupidi erano quasi tutti perché non riuscivano a vedere quello che vedeva lui così chiaramente: che quella colomba capiva benissimo tutte le sue parole e forse perfino i suoi pensieri.
Un giorno sulla collina vennero dei soldati. Erano armati e minacciosi, che cosa volevano? La colomba si era messa a volare con giri concentrici e sembrava impazzita. I soldati avevano picchiato il papà di Shadi e trascinato fuori di casa la mamma e gli altri fratelli. Il bambino ebbe tanta paura quando uno di loro lo afferrò per il braccio e quasi lo gettò addosso alla mamma gridando qualcosa in una lingua che nessuno di loro capiva. Poi puntarono le loro armi addosso a tutta la famiglia. La colomba aveva continuato per tutto il tempo i suoi giri isterici sopra le teste dei soldati tanto che uno di loro cercò di colpirla col calcio del fucile, ma per fortuna non ci riuscì.
Cacciati di casa, senza poter portare con sé nessuna delle cose che erano loro care e preziose o anche soltanto utili, tristemente discesero la collina e andarono ad accamparsi a valle piantando una tenda che faticosamente erano riusciti a mettere in piedi. La loro vita cambiò completamente. Avevano alberi da frutta e ulivi e ora non era rimasto loro nulla, anche gli animali erano restati lassù, assieme alla casa. Solo la colomba di Shadi li aveva seguiti e dopo i voli disperati sulla collina ora non si muoveva più dalla sua spalla come a volerlo confortare e fargli sentire che non era solo in quella sciagura. Ora il babbo non lo sgridava più per il disordine e del resto i gessetti erano andati perduti. Nemmeno Nabil litigava più con lui e la mamma non aveva hummus da proporgli. Tutti erano rimasti attoniti dopo quella prepotenza e non sapevano da che parte cominciare per ritornare a vivere. Ma poi piano piano il babbo zappò un orticello e la mamma cucinò le verdure, Murad e Nabil si svegliarono prima dell'alba per potersi mettere in cammino fino alla scuola che ora era più lontana perché in quella solita c'erano andati i soldati e anche Shadi si adattò a giocare come poteva e a disegnare con un legnetto sulla terra invece che con i pastelli. Ma si erano appena adattati a quella nuova e più difficile vita quando un giorno una palla di cannone colpì in pieno la tenda. Per fortuna dentro non c'era nessuno, ma tutte le loro cose, tutto ciò che avevano faticosamente ricostruito era andato distrutto e bruciato. Shadi sentì il terribile fragore e tornò di corsa a casa, cioè alla tenda. La mamma piangeva seduta su un masso bruciacchiato davanti alla tenda, l'ijiab le si era slacciato e i capi cascavano inerti sulle sue spalle tra i capelli sciolti. Quando il babbo tornò e vide quello sfacelo non ebbe la forza nemmeno di arrabbiarsi perché le braccia gli cascarono inerti lungo i fianchi e i suoi occhi si riempirono di sconforto. Aspettarono che Murad e Nabil tornassero dalla scuola, poi decisero di mettersi in viaggio. Volevano andare fino alla collina più vicina dove vivevano le altre persone della loro hamula, che era molto grande. Lì speravano di trovare aiuto e ospitalità. Ma quando arrivarono, stanchi e impolverati, trovarono i loro parenti ai piedi della collina piangenti e sconvolti. Anche lì erano andati i soldati ed anche lì si erano impossessati di tutto quello che avevano cacciandoli via. Tutti si erano abbracciati confortandosi a vicenda e raccontandosi i tristi particolari di quell 'abuso, poi avevano asciugato le lacrime e insieme si erano messi in cammino per andare alla prossima collina sperando che fosse stata risparmiata. Ma anche lì trovarono le stesse scene di sconforto e disperazione. Dovunque andassero trovavano la stessa situazione e di collina in collina il gruppo diventava sempre più grande. Camminavano stanchi, in fila, portandosi in braccio le poche cose che erano riusciti a salvare e non sapevano quando avrebbero potuto smettere di camminare e potersi riposare. Ormai erano lontanissimi dalla loro hamula e non conoscevano più le persone che incontravano. Nel loro cammino s'imbatterono in villaggi che erano stati abbandonati, in altri che erano stati distrutti ed in altri ancora dove le persone andavano loro incontro con le braccia alzate gridando e piangendo e i bambini si nascondevano dietro le gonne delle mamme con gli occhi pieni di spavento. Tutte quelle persone si unirono a loro e ripresero il cammino. Andavano via dalla guerra e dai soldati che sparavano ovunque, ma non sapevano dove andare. La colomba di Shadi percorreva volando l'immensa fila di profughi da un capo all'altro senza riposo.
Un giorno arrivarono in una grande città. Gli abitanti di questa città erano rimasti nelle loro case e non avevano voluto andarsene nemmeno quando i soldati erano arrivati e avevano cominciato a sparare. Le loro case erano piene di buchi e molti erano morti, ma quando videro arrivare i profughi a cui non era rimasto nulla li accolsero meglio che potettero e li aiutarono a piantare delle tende vicino alla città, perché potessero fermarsi finalmente e ricominciare la loro vita. Shadi ora non giocava più da solo correndo a perdifiato per grandi spazi, ma assieme a un nugolo di bambini, e mentre prima si divertiva a gridare contro il vento e a correre incontro al sole, ora non aveva più lo spazio per correre, ma anche lo avesse avuto, bisognava stare attenti e non correre troppo o i soldati avrebbero potuto pensare che volevano correre a tirare loro delle pietre, né gridare, perché nell'un caso e nell'altro i soldati avrebbero potuto sparare e uccidere i bambini. Shadi era molto triste e non sapeva come avrebbe potuto sopportare quella vita se non ci fosse stata la sua colomba. In quei campi profughi, le cui tende erano col tempo state sostituite da case in muratura, non c'erano i servizi, tutto era stretto sporco e squallido e soprattutto c'era un enorme affollamento dato che le famiglie cacciate dalle loro case erano state tante. Ma se da fuori il campo era brutto e anche le case erano brutte e approssimative, dentro, erano tenute pulite e accoglienti, benchè povere. Come la mamma di Shadi, ogni mamma faceva di tutto perché la sua famiglia e i bambini vi potessero vivere il meglio possibile. Non potevano fare niente per migliorare le cose all'esterno, ma all'interno facevano in modo che vi fosse sempre qualcosa di bello e di grazioso, un tappeto colorato, dei poster che piacevano ai bambini, un giocattolo aggiustato con perizia.
Passò molto tempo in quella condizione dura e difficile, poi un giorno vennero dei muratori scortati dai soldati e cominciarono a costruire un muro. Gli abitanti del campo e anche quelli della città guardavano preoccupati questo muro crescere giorno per giorno finchè fu terminato e tanto la città quanto il campo dei rifugiati si trovarono circondati dalle sue pareti altissime e invalicabili. Nessuno poteva uscire più dal campo o dalla città senza il permesso dei soldati, che però potevano entrare e arrestare le persone che cercavano di uscire per andare al lavoro o solo per non sentirsi prigionieri. Poco a poco scese su quelle persone una tristezza sempre più pesante. Il papà di Shadi non potè più uscire per andare al suo lavoro e tutti diventarono ancora più poveri e più infelici. Così isolati da tutto il resto del mondo gli abitanti si convinsero che nessuno più si ricordasse di loro e loro stessi dimenticarono come era una vita normale e libera.
Una sera più buia del solito, senza neppure la luna, la colomba di Shadi spiccò il volo e se ne andò oltre il muro. Il povero bambino scosso da quell'abbandono cominciò a correre dietro al volatile che non andava troppo veloce, per permettergli di raggiungerlo. Ma come poteva seguirla oltre quell'enorme parete? La colomba dall'altra parte del muro volteggiava piano come per indicargli la strada e fu così che Shadi trovò una breccia dove il muro non era ancora finito e si arrampicò sui calcinacci, scivolando, facendo franare mucchietti di brecciolini, e tremando di paura. Si ritrovò dall'altra parte atterrito all'idea di essere scoperto dai soldati. Ma il buio era fitto e nessuno lo vide. Ciò malgrado il bambino era più spaventato che se si fosse trovato in una foresta piena di belve feroci pronte a divorarlo. Dalla notte gli pareva spuntassero occhi rossi che lo osservavano e respiri di mostri. Poi vide la colomba appollaiata su una pianta. Mentre si dirigeva verso di lei sperando che non riprendesse il volo, accadde un fatto incredibile. Con gli occhi spalancati dallo stupore Shadi vide la sua colomba trasformarsi in una bella signora: alta, sottile, con un vestito ricamato e lunghi capelli neri sulle spalle appena coperti da un lungo velo azzurro. Aveva un volto soave e occhi belli e tristi.
-Chi sei bella signora?- domandò il nostro bambino con infinita meraviglia
-qual è il tuo nome?-
Con dolcezza la signora rispose:
-Il mio nome è Palestina-
-Sono venuta qui Shadi, piccolo mio, perché non potevo rivelarmi a te dentro una prigione. Vi hanno preso la casa e il campo, ma io non sono lì. Vivo nella vostra tristezza, vi seguo nel vostro esilio. -Quando Shadi ritornò a casa passando dalla breccia del muro, la signora scomparve e la sua colomba tornò indietro con lui volandogli accanto.
Shadi andò a dormire con il cuore colmo di meraviglia e di speranza, la sera dopo, quando il buio avvolse di nuovo il campo, la signora riapparve.
-Guarda Shadi che cosa ti ho portato, la notte scorsa ho intrecciato questo tappeto con i miei capelli. E' un tappeto volante, con questo puoi andare dove vuoi, librarti sopra il muro e andare a vedere il mondo. Vai nel mondo, Shadi, bambino mio, cerca orecchie disposte ad ascoltarti, racconta della Palestina, la bella signora prigioniera dietro il muro-
Con una grande eccitazione Shadi montò sul tappeto magico, non gli sembrava vero di poter volare dove voleva e non si ricordò neppure di avvertire la mamma. In breve si ritrovò così in alto che poteva toccare le nuvole e poi ancora più in alto vicino alle stelle. A quella distanza non c'era missile o razzo che lo potesse raggiungere. Il cielo era blu scuro ma non gli faceva paura, sentiva una pace e un'armonia che nessuno di certo laggiù da dove veniva aveva mai conosciuto. Non solo il suo popolo dietro il muro, ma anche i soldati stranieri che lo avevano imprigionato. Continuò a viaggiare tra le stelle e a sfiorare le nuvole sopra e sotto di lui tutta la notte e non era mai stato così felice, neppure nella sua casa sulla collina. Quando infine venne l'alba sfolgorante di luci e poi il sole del mattino Shadi stava volando sopra un grande parco. C'erano bambini che giocavano rincorrendo una palla. Facevano un gran vociare, ridevano e saltavano come cavallette. Shadi si ricordò con nostalgia di quando giocava così con i suoi fratelli, ma era stato tanto tempo fa. Pensò di scendere e di cominciare da lì per raccontare della Palestina. Quando però cominciò a raccontare ai bambini di come vivevano lui e i suoi fratelli dietro il muro, quelli non gli credettero:
-Cosa stai raccontando? Dove si è mai sentito che dei bambini non possano correre? Sei proprio un bugiardo!-
Shadi se ne andò molto triste, dove poteva andare a raccontare per essere creduto? Pensò che i bambini erano troppo ignoranti e che si doveva rivolgere a degli adulti, così quando vide delle persone sedute ai tavolini di un bar che bevevano e mangiavano gelati si avvicinò e cominciò a parlare con loro.
-Ho capito di chi stai parlando- disse una signora bionda con un profumo che faceva arricciare il naso del nostro bambino.
-Stai parlando di quei bambini che tirano pietre!-
-E non tirano soltanto pietre!- aggiunse un signore ben vestito,
-vogliono anche diventare kamikaze, l'ho sentito in un servizio in televisione. Questi bambini crescono con quest'aspirazione in testa-
-Sono educati così dai loro maestri- aggiunse un terzo signore
-E' per questo che i soldati chiudono le scuole-.
Shadi diventò ancora più triste e se ne andò sempre più dubbioso che qualcuno potesse credergli. Rimontò sul suo tappeto magico e volò fino ad un'altra città. Forse qui lo avrebbero ascoltato. Vide delle persone che facevano la fila per entrare al cinema e si avvicinò.
-Ma di cosa stai parlando?- Domandò un giovane
-Non ho mai sentito parlare di queste cose, e che cos'è questo muro? Mi ricordo che il muro di Berlino è stato già abbattuto, non mi risulta che ci siano altri muri!-
E' un muro costruito per la sicurezza- spiegò un signore più anziano
Siccome gli amici di questo bambino fanno gli attentati, le persone per bene si devono difendere-
Voi avete fatto degli errori!- disse un signore con la barba puntando il dito verso Shadi
E questa è la conseguenza dei vostri errori. I vostri capi sono cattivi e per questo siete ormai una causa persa, cosa volete da noi?-
Ancora questi straccioni!- Disse seccata una anziana signora
Non sono capaci di far crescere la loro economia, non sono capaci di lavorare e se la prendono con chi è più in gamba di loro, sanno solo lamentarsi-.
Ormai completamente deluso e sfiduciato Shadi non se la sentì di parlare ancora con qualcuno, montò sul suo tappeto magico e se ne andò.
Per fortuna, quando tornò a casa la mamma non si era accorta di nulla, perché mentre a lui era parso di essere stato via tanto tempo, per lei era passato solo un attimo. Andò a nascondere il tappeto e aspettò la bella signora.
Non mi hanno creduto!- Disse sconfortato quando lei riapparve.
Non te la prendere, piccolo mio, un po’ me lo aspettavo, però ho avuto un'altra idea. Se vogliamo uscire da questo muro bisogna cantare-
Cantare!?…-
Si, prendi tutti i bambini e cantate con quanto fiato avete in gola. Comincia tu, Shadi, canta-
Shadi era perplesso e aveva anche un po’ paura, ma cominciò a intonare un canto con la voce incerta e ancora tremolante:
"Il mio cuore è triste per te, Palestina…"-
Sentendo il suo canto gli altri bambini del campo si avvicinarono e cantarono con lui. Le loro voci si levarono alte e limpide contro il cielo, uscendo dal muro.
Nel sentire i canti, subito i soldati cominciarono a bombardare, ma i bambini non si spaventarono e cantarono più forte. Usciti dalle case, atterriti e disperati i loro genitori li vedevano cantare tutti insieme compatti e coraggiosi. I grandi allora dissero:
I nostri bambini non hanno paura, i nostri bambini cantano contro le bombe!-
E anche loro si unirono al canto. Dalla città sentirono il canto del campo profughi e la gente rimase in ascolto. Il canto si levava così alto che copriva il rumore delle bombe. Allora cominciarono a camminare per riunirsi ai loro fratelli del campo e cantare con loro. Stavano lì sotto le bombe tutto il campo profughi e tutta la città a cantare dal primo all'ultimo. Allora si cominciò a sentire qualche scricchiolio, il muro era già pieno di crepe, nel vedere questo tutti i palestinesi si misero a camminare verso il muro senza smettere di cantare ed ecco che un pezzo di muro crollò e qua e là i calcinacci franavano e le pietre si sbriciolavano. Quando tutta la gente arrivò sotto il muro, il muro non c'era più, era completamente crollato sotto il peso del loro canto. Così tutto il popolo attraversò le rovine del muro e cominciò a camminare verso le colline dove c'erano le fortezze dei soldati e dei loro amici.
Che cos'è questo canto che si avvicina?-
Domandò un generale.
-Sono solo i soliti bambini-
rispose sprezzante un altro generale.
Ma un terzo che era uscito a vedere tornò dentro gridando:
No! E' la Palestina che canta! Fuggiamo presto, prima che crollino le nostre fortezze!-
Davanti al popolo alta e fiera c'era infatti la bella signora, i suoi occhi non erano più tanto tristi e la sua voce si levava limpida, alta e commovente come mai.
La storia finisce qui, ma lascia immaginare che un canto può volare anche più di un tappeto magico e come in altre storie già raccontate, far crollare i muri, così Shadi, bambino mio, ogni volta che ti senti triste, canta, e io da lontano, canterò con te e insieme ci faremo coraggio e forse faremo crollare i muri alzati dentro i cuori di pietra.





IL GATTO DI BALATA


Il piccolo Andrea lo aveva incontrato sulla battigia, camminava a fatica e il pelo bagnato gli conferiva un'aria davvero abbacchiata.
-Dov'è il tuo padrone?- aveva esclamato Andrea
-Hai bisogno proprio di una bella asciugata-
-Lascia perdere- aveva risposto ingrugnito il gatto
-E' laggiù dietro quei cancelli, ma non importa, mi carezzava sempre contropelo-
-Come ti chiami?-
_Mi chiamo Mustafà e sono un gatto importante, sono parente di un martire!-
-Un martire!? - esclamò incredulo Andrea
-Come fa un gatto a diventare un martire?-
-Ora te lo racconto: un giorno i bambini hanno legato al collo di mio fratello Nureddin, il martire, un paio di barattoli di latta e poi lo hanno mandato nel campo dei soldati, i soldati hanno creduto che si trattava di una bomba ed hanno cominciato a dare la caccia a Nureddin che correva dappertutto facendo un gran rumore. c'è stato un parapiglia e i soldati se la sono fatta addosso per la paura, poi però sono riusciti a prendere mio fratello e lo hanno ucciso. La notte i bambini sono andati a recuperare il corpo ed hanno costruito una barella, lo hanno adagiato sulla barella e lo hanno coperto con la bandiera palestinese poi gli hanno fatto un gran funerale e lo hanno seppellito con la bandiera. Ora io sono diventato il parente di un martire e sono un gatto importante, tutti mi portano rispetto e nessuno mi tira pietre o mi molesta in nessun modo, tranne Bashir che continua a carezzarmi contropelo-.
Sei un gatto molto strano, comunque se vuoi venire a casa mia, ti darò un'asciugata e qualcosa da mangiare-
Vengo, ma patti chiari, mi puoi dare un cuscino per dormire e una buona pappa, ma io resto un gatto libero-
Andrea s'incamminò e il gatto di Balata gli teneva dietro sempre fradicio da far pietà, ma con la coda ritta, tutto compreso nel suo ruolo di gatto di rispetto. Appena furono entrati in casa, Marco, il fratello più grande di Andrea esclamò:
-Dove hai trovato questo sfacelo di gatto? E' tutto sporco, sarà anche malato, vedrai che la mamma non te lo lascerà tenere-
-E' un gatto di Balata- rispose Andrea che già sapeva tutto di Mustafà con cui aveva chiacchierato durante il percorso.
-Di Balata? E chi è questo Balata? E se ha già un padrone perché lo hai portato a casa?-
-Siete tutti così ignoranti da queste parti?-
Intervenne Mustafà quasi disgustato
-Prima di tutto io come gatto, non conosco padroni, e poi Balata è il posto da dove vengo-
-Che posto è? Non l'ho mai sentito-
Guardiamo sulla carte geografica- suggerì Andrea. Presero la carta geografica ma non trovarono nulla.
Ma questo posto non esiste, non sai se c'è una grande città lì vicino?- Domandò Andrea. Mustafà si mise a riflettere per qualche secondo poi disse
Ci sono! Una grande città vicina a Balata è Nablus-
Meno male - disse Marco e tutti e due ricominciarono a cercare, ma anche questa volta non trovarono nulla. Marco si arrabbiò un poco:
Mica ci starai prendendo in giro gatto balordo?-
Dicci in che nazione si trovano Balata e Nablus, forse così le troviamo- aggiunse Andrea.
Dì a tuo fratello di portarmi rispetto! - Disse Mustafà offeso,
comunque si trovano tutte e due in Palestina-
Alla buon'ora! - esclamò Marco e rivolto a suo fratello
Che gatto strampalato è questo!-
Palestina, Palestina, macchè nemmeno la Palestina c'è-
No, no, osservò Andrea, la Palestina ci dev'essere, l'ho studiato a scuola-
Allora l'hai studiato nella storia antica o forse era una leggenda, perché non esiste proprio su questa carta geografica che è anche nuova-
Mustafà ascoltava questi strani discorsi con le orecchie tirate indietro pronto a graffiare se avessero aggiunto una sola parola. Intanto Andrea si ricordò delle sue promesse e andò a prendere qualcosa dal frigorifero.
Mangia Mustafà, questo spezzatino dovrebbe essere adatto a un gatto del tuo rango, non badare a Marco, sicuramente la sua carta geografica non è buona- e provò a fargli una carezza stando attento a non farlo contropelo, ma Mustafà era così inzaccherato che ritirò subito la mano.
Marco che era uscito dalla cucina stava rientrando in quel momento e vide Mustafà col muso sprofondato nel piatto.
Ehi, hai dato tutto lo spezzatino a questo gatto squinternato?- domandò. Il gatto di Balata ne aveva abbastanza e inarcò la schiena drizzando tutti i peli e cominciando a soffiare verso Marco.
Non devi trattarlo così- ammonì Andrea -Non lo sopporta perché è un gatto importante, è il parente di un martire-
Vuoi dire quelli che si fanno saltare in aria?- Domandò Marco incredulo. Intanto Mustafà aveva rinunciato a minacciarlo e vedendolo così sprovveduto pensò che era meglio spiegargli qualcosa.
Certo che siete davvero ignoranti da queste parti!- esclamò -I martiri sono tutti quelli che muoiono per la patria. Uno può essere martire a pochi mesi oppure a 90 anni, ci sono martiri invalidi e martiri sani, uomini e donne, chiunque può essere un martire! Non devi per forza fare qualcosa di speciale per essere un martire -
Allora è facile diventare un martire!-
Ah si, facilissimo. Dalle mie parti, in Palestina, che tu non hai trovato sulla carta geografica, è facilissimo. Pensa che solo negli ultimi anni abbiamo avuto più di 4000 martiri.-
Che strano paese però!- esclamò Andrea -ma la gente non ha niente di meglio da fare che il martire? Non ci sono altri lavori?-
Bashir e la sua famiglia non avevano voglia di fare i martiri-
Stai parlando del tuo amico che ti carezzava contropelo?-
Proprio lui. Quando hanno deciso di partire per non diventare martiri, sono andato con loro per fare compagnia a Bashir che è un fifone, ma quando ci siamo trovati in mare mi sono preso un bello spavento-
E dov'è adesso Bashir?-
Te l'ho detto, dietro quei cancelli, dove hanno portato tutti quelli che sono sbarcati-
Mustafà fu scosso da un brivido e non riuscì più a nascondere la sua tristezza, non poteva fare a meno di guardare nella direzione del CPT dove era prigioniero Bashir.
Andrea gli fece una carezza senza badare al fango questa volta. Capiva il suo abbattimento, pensò che l'indomani, quando Mustafà si sarebbe riposato, gli avrebbe dato una bella spazzolata, con tutto il rispetto però.

lunedì 9 luglio 2007

Dal libro POESIA DI PACE AL TEMPO DELLA GUERRA
Edizioni Stelle Cadenti 2005


La forza del gelsomino
L'incommensurabile tenacia del mare
Ogni configurazione delle stelle
Gli esametri latini
Ogni etimologia, tutti gli endecasillabi
La geometria, il punto, la linea, il volume
L’algebra
La scienza di Avicenna


Lo scorrere dell’acqua di una fontana
nel silenzio dei cortili dell’Alambra
Tutti i labirinti del tempo
La memoria di ogni inizio
Mitologia, religioni, storia…
Elenco di regni, guerrieri spade e monumenti
Eraclito medita sul flusso del tempo
all’altro emisfero
un canguro scavalca la nebbia
ed ognuna di queste cose
è contenuta in un libro.
Ogni singolo istante
Ogni mappa del mondo
Il labirinto di Cnosso
e la porta dei leoni
L’incendio di Alessandria
E un’onda che lambisce come un bacio
una colonna rovinata nell’acqua
a Cesarea.
Dio creò l’universo con le lettere
è scritto nel Libro della Creazione
Il mondo è un libro.


OTTO MARZO


Buon otto marzo a te Maja
bambina spaventata
nel buio della tenda ti coprivi
il volto con le mani
mentre tuo padre infuriava
saltando addosso alle sorelle
picchiando tua madre.
Fin da piccola hai conosciuto il vuoto
il cielo snza riparo.
Sotto il sole riarso il padre incombeva su di voi
finchè un giorno il tuo fratello più giovane
gli è saltato addosso col coltello.
Allora la tribù vi ha voltato le spalle.
Un brivido è trascorso sulle polverose colline:
Il padre ucciso nel giorno del Ramadam.
Avanti che il ragazzo alzasse la mano
la polizia non si era immischiata
l’assistente sociale aveva detto:
“Affari di beduini”
e lo sharaf imponeva il silenzio.
Nessuno sposerà te e le tue sorelle.
Tuo fratello più giovane
si è ucciso in prigione.
Sulla tua serrata solitudine
il crepuscolo è sceso
come un cedimento del cielo
ma l’acqua di cui è intriso il tuo nome
fluisce e lava il deserto impuro.
Buon otto marzo Maja.


Buon otto marzo a te Thara
ai tuoi diciotto anni
bruciati sulla pira
assieme al cadavere
del tuo vecchio marito
perché così è l’uso
ed era esattamente quello
che si aspettavano da te.


Buon otto marzo a te Jamila
alla tua persona che sopravvive in segreto
e soltanto il buio ormai sa
che sei bella.
Aprendo un giornale
mi ha ferito
la tua immagine oltraggiata
Tu che cammini con la tua prigione
dietro il burka.
Ti guardo
e vedo in te la mia anima offesa.


Buon otto marzo Malka
regina dell’esclusione
non conta se hai un’anima grande
quando dieci mocciosi
si attaccano alle tue gonne.


E buon otto marzo a tre Claire
che vivi in un paese chiamato civile
ma non per te
che hai dovuto sparire
con i tuoi figli in fuga
come un delinquente per mezza America
clandestina e con documenti falsi
per sfuggire a un marito violento
da cui la società non è abbastanza civile
da riuscire a difenderti.


Buon otto marzo bambina tailandese
esile come un fiore di palude
il tuo sorriso infantile che appassisce
nel bordello al cui proprietario
ti hanno venduta.
Per tua sorella è stato combinato
un matrimonio con un marito anziano
una differenza di forma non certo di sostanza.


Buon otto marzo a te Shalev
una vita spesa per la pace
la tua creatività di madre e di artista
che si era sempre dispiegata per unire
ed ora guardi i tuoi contenuti, tutti svuotati
i tuoi figli
partiti per la guerra che odiavi…


Buon otto marzo Aisha
mentre maledici sulle rovine della tua casa
che non riavrai mai più.
Con tuo marito non era facile
su tutto si sentiva il padrone
ora che Kaled è morto però
lo puoi prendere a calci come un sacco di stracci.
Anche lo sguardo gli si è spento,
tu maledici,
che altro può fare una donna
alzando i pugni al cielo colpevole.


Buon otto marzo Irene, che speravi
una vita diversa
nel ricco occidente.
Tu, con la tua mitezza da cucciolo
sei caduta in mano a gente feroce
ghigno da assassini
un tugurio sporco e vuoto dove trascinarsi la sera
botte e angoscia
così il sole si è spento
la vita si è mostrata come inferno.


Buon otto marzo Soledad
fresco sorriso
fanciulla in fiore schiacciato
sotto le scarpe di un cinico
turista sessuale
convinto ch stuprare bambine
in un paese povero
non sia un grave reato.


E buon otto marzo a te, bimba senza nome
che hai aperto gli occhi
solo per incontrare la morte
gettata in fondo a un pozzo
in uno sperduto villaggio cinese.
Per te la rivoluzione culturale
non c’è stata.


Buon otto marzo a voi donne del mondo
Tutte vi ho nominato soffrendo.
Spegnerci non è facile
ne metterci a tacere.
Latifa è uscita viva dalla tomba
dove l’avevano seppellita i suoi fratelli
e viva era anche la bambina
che aveva in grembo.
Usciamo insieme dalla penombra dell’essere
nelle nostre mani prendiamo
la responsabilità di aprire
un sottile spiraglio di futuro
sul mondo sconsolato.


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