mercoledì 21 novembre 2007
Il muro del pianto
IL MURO DEL PIANTO
I bambini si voltarono un’ultima volta a salutarla con la mano. Amal li guardava allontanarsi nei loro lindi grembiulini con lo zainetto dei libri sulle spalle. Ogni giorno doveva lottare per superare la sua paura prima di allacciare loro i grembiuli e prepararli per la scuola. Ogni giorno i piccoli Ashraf e Senabel seconda e terza elementare dovevano cercare i varchi nel muro o camminare fino a dove non era del tutto finito e arrampicarsi per poter scendere dall’altra parte dove era rimasta la loro scuola. Il muro era lì come una minaccia, si alzava tra gli abitanti del villaggio e la loro vita. “Ora che i miei bambini devono arrampicarsi tra i calcinacci certamente gli israeliani si sentono più sicuri” pensava Amal. La notte sognava i Pink Floid che cantando “The Wall” a squarciagola facevano crollare il muro tra gli applausi, come quelli di Gerico o di Berlino. Ma il muro era sempre lì e ogni giorno cresceva come una tenia. Abu Salah un abitante del villaggio se lo era trovato addirittura nell’orto di casa. La rapidità con cui avanzava era sconcertante, Abu Salah era uscito nell’orto e l’orto non c’era più. Al posto dei tre ulivi e del melo c’era ora quel blocco grigio attaccato alla sua casa e l’orto dall’altra parte. Ma anche Um Kaled aveva avuto una brutta sorpresa il giorno che aveva deciso di andare a prendere un tè da sua sorella che abitava a pochi metri di distanza. Um Kaled che era soprappensiero vide il muro solo all’ultimo momento. Era una visione surreale e lei rimase indecisa per un attimo perché avrebbe potuto essere anche un’allucinazione alla quale forse poteva passare attraverso. Per fortuna non optò per questa soluzione perché ci avrebbe sbattuto il naso contro, infatti, quella cosa che vedeva nel bel mezzo della strada era proprio un solido e concreto tratto di muro. Um Kaled non ce la fece ad arrabbiarsi, perché se una mattina uno si sveglia, esce di casa e sulla strada che percorre da sempre si è alzato un muro, prima di arrabbiarsi rimane interdetto per un bel po’ e mentre cerca di raccapezzarsi il muro si alza da qualche altra parte della sua giornata, della sua vita. Il marito di Amal aveva una teoria.
–Sai- le disse -che il muro occidentale del tempio dove gli ebrei pregano e mettono bigliettini nelle fenditure, è chiamato muro del pianto? Gli ebrei hanno deciso di non piangere da soli e per questo ci hanno costruito questo muro che a ragione può essere chiamato del pianto-.
E lacrime e sangue erano già impastate nel cemento e nella terra sotto il muro. C’erano stati dei sit-in di protesta, i ragazzi avevano dipinto dei murales sul cemento grigio, colombe dalle grandi ali e slogan contro l’occupazione. I sit-in erano finiti con una preghiera collettiva e mentre tutti tendevano verso il cielo le mani disarmate con le palme aperte i soldati avevano sparato falciando otto vite.
Quella notte Amr non aveva chiuso occhio. Si era rigirato nel letto tutto il tempo pensando a suo padre. Voleva andare a studiare all’estero. Non era possibile andare avanti così! Un giorno l’università era chiusa, un giorno non gli facevano passare il ceck point, un giorno rompevano la strada e un altro bombardavano con i missili. Amr faceva sul serio, voleva andare avanti e aveva una vita sola, non poteva aspettare che gli permettessero di viverla lì, questo aveva detto a suo padre, mentre il vecchio (non era poi tanto vecchio ma lo sembrava per i giorni accumulati di fatica e di dolore) lo guardava con una strana espressione negli occhi lacrimosi, Amr avrebbe potuto definirla di incredulità, di paura, di abbandono. “Potresti non riuscire a tornare” aveva detto “potremmo non vederci più, non dobbiamo dividerci”. Amr aveva preso una stanza in affitto vicino all’università per evitare il ceck point. Basta. Aveva deciso. Sarebbe andato da suo padre per rassicurarlo, d’accordo, non se ne sarebbe andato, si sarebbe laureato lì, inshallah, a Bir Zeit. La decisione presa gli fece sentire la giornata più leggera compresa l’attesa al ceck point. Si era tolto un peso dal cuore che premeva di più ogni volta che ricordava lo sguardo di suo padre, ora sulla sua vecchia faccia sarebbe tornato il sorriso. Questo pensiero faceva sorridere anche Amr che andava verso il villaggio finché sulla strada di casa non si stagliò il muro. Amr strizzò gli occhi come uno che voglia vederci meglio. Forse era un appannamento della vista. Macché, era un muro. Un muro in mezzo al villaggio? A chi spiegare che doveva correre a casa? Non c’era nessuno in cima a parte le mitragliatrici che sparavano quando la fotocellula avvertiva una presenza. Amr era bloccato lì e suo padre dall’altra parte, con i suoi occhi lacrimosi che non sorridevano più che non avrebbero sorriso.
Non è che non si potesse proprio passare da una parte all’altra del muro che attraversava il villaggio, che lo tagliava in due: bisognava chiedere un permesso all’esercito per uscire dal lato dove ci si trovava, aspettare che venisse accordato e poi per tornare indietro chiedere un altro permesso. Nessuno però poteva prevedere se quando e come il permesso sarebbe stato accordato. In genere dipendeva dall’umore del graduato di turno, dalla situazione generale e dalla voglia che aveva l’IDF di divertirsi.
Mentre Amr non sorrideva più pensando a suo padre, il suo coetaneo Hakim camminava poco lontano con un sorriso ispirato stampato sulla faccia. Si sentiva leggero e allegro e poco ci mancava che si sollevasse da terra in volo sul villaggio come un personaggio di Chagal. La bella Aysha gli aveva sorriso. Che importava il grigiore della sua vita, le umiliazioni al ceck point ogni giorno, che importava la tenebra che invadeva a macchia d’olio ogni angolo del suo quotidiano. Una gioia lieve come una nuvola gli apriva il cuore a ogni possibile speranza mentre si avviava verso la casa di Aysha. Incontrò Hamza, il suo vicino, che gridava improperi al cielo.
-Che ti succede amico?- gorgheggiò sulla faccia accigliata dell’uomo.
-Il mio somaro!- gridò Hamza.
-Che è successo al tuo somaro?-
-E’ rimasto di là, dall’altra parte- gridò il vicino indicando davanti a se.
-E’ cresciuto così in fretta che il mio somaro non ha fatto in tempo a passare, è anziano poveretto non può mica mettersi a correre!-
-Ma che cavolo dici Hamza, di che stai parlando?-
Intanto che discutevano avevano continuato a camminare e in quel momento si trovavano già di fronte al muro.
-Di quello sto parlando-
gridò Hamza indignato scuotendo il braccio
-del muro!- Hakim tacque all’improvviso e rimase di gesso perché il sorriso di Aysha era rimasto di là dal muro. Tutta la sua speranza e la sua gioia diventarono d’un tratto un macigno che gli rotolò sul capo e lo schiacciò sotto una repentina disperazione.
Ma il peggio che potesse mai capitare era capitato a Leyla e a Um Farid quando il muro era arrivato nel suo strisciare fino allo spiazzo sotto casa loro. I due figli di Um Farid, Murad di 14 e Farid di 15 anni e il figlio di Leyla, Marwan, coetaneo di Murad erano scesi sotto casa a giocare a pallone. Da giorni i ragazzi non andavano a scuola perché era chiusa, o meglio, era chiusa come scuola ma non come punto di avvistamento, dopo che i soldati l’avevano requisita. Era situata in un punto alto che a loro era sembrato strategico, così gli era piaciuta. Ora la scuola non c’era più. Per dispetto ai soldati i ragazzi avevano continuato a studiare per conto loro alcuni giorni, poi avevano posato i libri ed erano scesi a giocare. Lo spiazzo era perfetto per giocare a pallone e ci avevano giocato da sempre. Però prima non c’era il muro. Marwan colpì il pallone con forza e quello volò per aria, Farid gli corse dietro stava per calciarlo quando volò anche un colpo di fucile. Dal muro un cecchino aveva sparato. Murad e Marwan lo videro cadere a terra nel sangue, corsero verso di lui, PAM un altro colpo. Marwan cadde colpito in pieno. Murad si mise a urlare per la disperazione e la paura, un terzo colpo gli strozzò il grido in gola. Alle madri dei tre ragazzi rimasero solo gli occhi per piangere, ma non tanto vicino al muro. Perché al contrario di quell’altro muro del pianto, questo nelle fenditure non aveva bigliettini di preghiere, ma mitragliatrici e cecchini, perciò conveniva piangere a distanza.
Hourrìa guarda dalla finestra il cemento grigio del muro,
-Come fa a reggersi che è così alto?- domanda.
-Ha l’anima di ferro- spiega suo padre.
Una volta guardando fuori dalla finestra vedeva il campo della sua famiglia, ulivi, alberi da frutta, d’estate fiammate di papaveri e tanti uccelli. Adesso vede solo un vuoto grigiore, è tutto il suo orizzonte. Hourrìa è immobilizzata sulla sedia a rotelle. Un giorno era nel campo a giocare con i suoi cuginetti, che ora sono rimasti dall’altra parte, è partito un colpo di obice dalla collina dove c’è l’insediamento, ha distrutto un angolo della casa e le schegge hanno colpito lei da tutte le parti, è un miracolo che sia viva, però non può più camminare, una vera beffa per una che si chiama Hourrìa: libertà. Prima che il muro mangiasse il campo venivano a volte i cuginetti a giocare con lei qualche gioco che si poteva fare da fermi, ora non più. Halas. Finito. Anche di notte mentre lei dormiva tra un brutto sogno e l’altro, il muro che è una vorace anaconda ha continuato a strisciare, fare giri e circonvoluzioni e a divorare tutto ciò che ha trovato di allegro, di bello, di colorato lungo il suo cammino e ha stritolato terra acqua e persone nutrendosi delle lacrime degli innocenti.
I bambini si voltarono un’ultima volta a salutarla con la mano. Amal li guardava allontanarsi nei loro lindi grembiulini con lo zainetto dei libri sulle spalle. Ogni giorno doveva lottare per superare la sua paura prima di allacciare loro i grembiuli e prepararli per la scuola. Ogni giorno i piccoli Ashraf e Senabel seconda e terza elementare dovevano cercare i varchi nel muro o camminare fino a dove non era del tutto finito e arrampicarsi per poter scendere dall’altra parte dove era rimasta la loro scuola. Il muro era lì come una minaccia, si alzava tra gli abitanti del villaggio e la loro vita. “Ora che i miei bambini devono arrampicarsi tra i calcinacci certamente gli israeliani si sentono più sicuri” pensava Amal. La notte sognava i Pink Floid che cantando “The Wall” a squarciagola facevano crollare il muro tra gli applausi, come quelli di Gerico o di Berlino. Ma il muro era sempre lì e ogni giorno cresceva come una tenia. Abu Salah un abitante del villaggio se lo era trovato addirittura nell’orto di casa. La rapidità con cui avanzava era sconcertante, Abu Salah era uscito nell’orto e l’orto non c’era più. Al posto dei tre ulivi e del melo c’era ora quel blocco grigio attaccato alla sua casa e l’orto dall’altra parte. Ma anche Um Kaled aveva avuto una brutta sorpresa il giorno che aveva deciso di andare a prendere un tè da sua sorella che abitava a pochi metri di distanza. Um Kaled che era soprappensiero vide il muro solo all’ultimo momento. Era una visione surreale e lei rimase indecisa per un attimo perché avrebbe potuto essere anche un’allucinazione alla quale forse poteva passare attraverso. Per fortuna non optò per questa soluzione perché ci avrebbe sbattuto il naso contro, infatti, quella cosa che vedeva nel bel mezzo della strada era proprio un solido e concreto tratto di muro. Um Kaled non ce la fece ad arrabbiarsi, perché se una mattina uno si sveglia, esce di casa e sulla strada che percorre da sempre si è alzato un muro, prima di arrabbiarsi rimane interdetto per un bel po’ e mentre cerca di raccapezzarsi il muro si alza da qualche altra parte della sua giornata, della sua vita. Il marito di Amal aveva una teoria.
–Sai- le disse -che il muro occidentale del tempio dove gli ebrei pregano e mettono bigliettini nelle fenditure, è chiamato muro del pianto? Gli ebrei hanno deciso di non piangere da soli e per questo ci hanno costruito questo muro che a ragione può essere chiamato del pianto-.
E lacrime e sangue erano già impastate nel cemento e nella terra sotto il muro. C’erano stati dei sit-in di protesta, i ragazzi avevano dipinto dei murales sul cemento grigio, colombe dalle grandi ali e slogan contro l’occupazione. I sit-in erano finiti con una preghiera collettiva e mentre tutti tendevano verso il cielo le mani disarmate con le palme aperte i soldati avevano sparato falciando otto vite.
Quella notte Amr non aveva chiuso occhio. Si era rigirato nel letto tutto il tempo pensando a suo padre. Voleva andare a studiare all’estero. Non era possibile andare avanti così! Un giorno l’università era chiusa, un giorno non gli facevano passare il ceck point, un giorno rompevano la strada e un altro bombardavano con i missili. Amr faceva sul serio, voleva andare avanti e aveva una vita sola, non poteva aspettare che gli permettessero di viverla lì, questo aveva detto a suo padre, mentre il vecchio (non era poi tanto vecchio ma lo sembrava per i giorni accumulati di fatica e di dolore) lo guardava con una strana espressione negli occhi lacrimosi, Amr avrebbe potuto definirla di incredulità, di paura, di abbandono. “Potresti non riuscire a tornare” aveva detto “potremmo non vederci più, non dobbiamo dividerci”. Amr aveva preso una stanza in affitto vicino all’università per evitare il ceck point. Basta. Aveva deciso. Sarebbe andato da suo padre per rassicurarlo, d’accordo, non se ne sarebbe andato, si sarebbe laureato lì, inshallah, a Bir Zeit. La decisione presa gli fece sentire la giornata più leggera compresa l’attesa al ceck point. Si era tolto un peso dal cuore che premeva di più ogni volta che ricordava lo sguardo di suo padre, ora sulla sua vecchia faccia sarebbe tornato il sorriso. Questo pensiero faceva sorridere anche Amr che andava verso il villaggio finché sulla strada di casa non si stagliò il muro. Amr strizzò gli occhi come uno che voglia vederci meglio. Forse era un appannamento della vista. Macché, era un muro. Un muro in mezzo al villaggio? A chi spiegare che doveva correre a casa? Non c’era nessuno in cima a parte le mitragliatrici che sparavano quando la fotocellula avvertiva una presenza. Amr era bloccato lì e suo padre dall’altra parte, con i suoi occhi lacrimosi che non sorridevano più che non avrebbero sorriso.
Non è che non si potesse proprio passare da una parte all’altra del muro che attraversava il villaggio, che lo tagliava in due: bisognava chiedere un permesso all’esercito per uscire dal lato dove ci si trovava, aspettare che venisse accordato e poi per tornare indietro chiedere un altro permesso. Nessuno però poteva prevedere se quando e come il permesso sarebbe stato accordato. In genere dipendeva dall’umore del graduato di turno, dalla situazione generale e dalla voglia che aveva l’IDF di divertirsi.
Mentre Amr non sorrideva più pensando a suo padre, il suo coetaneo Hakim camminava poco lontano con un sorriso ispirato stampato sulla faccia. Si sentiva leggero e allegro e poco ci mancava che si sollevasse da terra in volo sul villaggio come un personaggio di Chagal. La bella Aysha gli aveva sorriso. Che importava il grigiore della sua vita, le umiliazioni al ceck point ogni giorno, che importava la tenebra che invadeva a macchia d’olio ogni angolo del suo quotidiano. Una gioia lieve come una nuvola gli apriva il cuore a ogni possibile speranza mentre si avviava verso la casa di Aysha. Incontrò Hamza, il suo vicino, che gridava improperi al cielo.
-Che ti succede amico?- gorgheggiò sulla faccia accigliata dell’uomo.
-Il mio somaro!- gridò Hamza.
-Che è successo al tuo somaro?-
-E’ rimasto di là, dall’altra parte- gridò il vicino indicando davanti a se.
-E’ cresciuto così in fretta che il mio somaro non ha fatto in tempo a passare, è anziano poveretto non può mica mettersi a correre!-
-Ma che cavolo dici Hamza, di che stai parlando?-
Intanto che discutevano avevano continuato a camminare e in quel momento si trovavano già di fronte al muro.
-Di quello sto parlando-
gridò Hamza indignato scuotendo il braccio
-del muro!- Hakim tacque all’improvviso e rimase di gesso perché il sorriso di Aysha era rimasto di là dal muro. Tutta la sua speranza e la sua gioia diventarono d’un tratto un macigno che gli rotolò sul capo e lo schiacciò sotto una repentina disperazione.
Ma il peggio che potesse mai capitare era capitato a Leyla e a Um Farid quando il muro era arrivato nel suo strisciare fino allo spiazzo sotto casa loro. I due figli di Um Farid, Murad di 14 e Farid di 15 anni e il figlio di Leyla, Marwan, coetaneo di Murad erano scesi sotto casa a giocare a pallone. Da giorni i ragazzi non andavano a scuola perché era chiusa, o meglio, era chiusa come scuola ma non come punto di avvistamento, dopo che i soldati l’avevano requisita. Era situata in un punto alto che a loro era sembrato strategico, così gli era piaciuta. Ora la scuola non c’era più. Per dispetto ai soldati i ragazzi avevano continuato a studiare per conto loro alcuni giorni, poi avevano posato i libri ed erano scesi a giocare. Lo spiazzo era perfetto per giocare a pallone e ci avevano giocato da sempre. Però prima non c’era il muro. Marwan colpì il pallone con forza e quello volò per aria, Farid gli corse dietro stava per calciarlo quando volò anche un colpo di fucile. Dal muro un cecchino aveva sparato. Murad e Marwan lo videro cadere a terra nel sangue, corsero verso di lui, PAM un altro colpo. Marwan cadde colpito in pieno. Murad si mise a urlare per la disperazione e la paura, un terzo colpo gli strozzò il grido in gola. Alle madri dei tre ragazzi rimasero solo gli occhi per piangere, ma non tanto vicino al muro. Perché al contrario di quell’altro muro del pianto, questo nelle fenditure non aveva bigliettini di preghiere, ma mitragliatrici e cecchini, perciò conveniva piangere a distanza.
Hourrìa guarda dalla finestra il cemento grigio del muro,
-Come fa a reggersi che è così alto?- domanda.
-Ha l’anima di ferro- spiega suo padre.
Una volta guardando fuori dalla finestra vedeva il campo della sua famiglia, ulivi, alberi da frutta, d’estate fiammate di papaveri e tanti uccelli. Adesso vede solo un vuoto grigiore, è tutto il suo orizzonte. Hourrìa è immobilizzata sulla sedia a rotelle. Un giorno era nel campo a giocare con i suoi cuginetti, che ora sono rimasti dall’altra parte, è partito un colpo di obice dalla collina dove c’è l’insediamento, ha distrutto un angolo della casa e le schegge hanno colpito lei da tutte le parti, è un miracolo che sia viva, però non può più camminare, una vera beffa per una che si chiama Hourrìa: libertà. Prima che il muro mangiasse il campo venivano a volte i cuginetti a giocare con lei qualche gioco che si poteva fare da fermi, ora non più. Halas. Finito. Anche di notte mentre lei dormiva tra un brutto sogno e l’altro, il muro che è una vorace anaconda ha continuato a strisciare, fare giri e circonvoluzioni e a divorare tutto ciò che ha trovato di allegro, di bello, di colorato lungo il suo cammino e ha stritolato terra acqua e persone nutrendosi delle lacrime degli innocenti.
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