La notizia della morte di Juliano mi ha colpito come un cazzotto allo stomaco.
Non volevo crederci e speravo in un errore, speravo di aver capito male, ma non
era così purtroppo. Un enorme sentimento di tristezza e di rabbia mi ha invaso.
Non ho mai incontrato Juliano fisicamente, ma per me è come se fosse stato
assassinato un mio parente, un fratello.
La prima volta che ho sentito parlare di lui è stato un lontano pomeriggio del
2002 durante una riunione di ECO da Alì Rashid che ci aveva raccontato di sua
madre Arna e della sua coraggiosa battaglia per i bambini del campo profughi di
Jenin. Poi era arrivato in internet un testo con due suoi articoli. Parlava
dell'esperienza del primo gruppo teatrale che lui aveva messo in piedi con i
bambini di Jenin, i bambini di Arna, un secondo articolo commemorava la triste
fine di questi ragazzi nel corso della seconda Intifada dove avevano
eroicamente resistito e combattuto ed erano morti. Entrambi gli articoli erano
bellissimi e commoventi, volevo che tutti o per lo meno tanti sapessero di
questa storia piena di tristezza, di speranza di resistenza e così avevo
proposto a una delle mie associazioni "Stelle Cadenti-Artisti per la pace di
pubblicare i due articoli in un libro con i disegni di Naji Al Ali. Il libro
aveva come titolo una frase di uno degli articoli "A Jenin sognano ancora un
teatro".
Juliano era un simbolo, una bandiera, un esempio di come si possa costruire un
percorso di solidarietà, di pace attraverso rapporti umani profondi, attraverso
l'arte. Era una persona bella di dentro e di fuori, la sua semplice immagine,
anche vista solo in filmati come l'indimenticabile "Arna'children" o in foto
comunicava tutta la ricchezza e la bellezza di una vita spesa per l'amore, la
giustizia, la solidarietà. Sono confusa, triste e arrabbiata e mi riesce
difficile sull'onda dell'emozione esprimere tutto quello che vorrei. Certamente
gli ignobili assassini hanno capito quanta forza c'è nell'arte, nella cultura,
nei rapporti diretti e profondi. Ma non s'illudano queste carogne di cancellare
o vanificare la sua opera. Juliano resterà sempre nei nostri cuori, ma altri
continueranno ciò che lui ha cominciato e questo atto criminale può solo
rafforzare in tutti noi l'impegno a lottare per la pace, la giustizia,
l'umanità.
martedì 5 aprile 2011
venerdì 1 aprile 2011
UN PO’ DI MENZOGNE SULLA GUERRA DI LIBIA Si dice che la prima vittima della guerra sia la verità. Le operazioni militari in Libia e la risoluzione 197
UN PO’ DI MENZOGNE SULLA GUERRA DI LIBIA
Si dice che la prima vittima della guerra sia la verità. Le operazioni militari in Libia e la risoluzione 1973 che ad esse fornisce base giuridica non fanno eccezione a questa regola.
DI THIERRY MEYSSAN *
Roma, 31 marzo 2011, Nena News – Per fornire un’immagine a fosche tinte, la stampa atlantista ha fatto credere che le centinaia di migliaia di persone in fuga dalla Libia stiano tentando di sfuggire a una strage. Le agenzie di stampa hanno evocato migliaia di morti e parlato di “crimini contro l’umanità”. La Risoluzione 1973 ha messo in guardia il Tribunale penale internazionale contro possibili “attacchi sistematici o generalizzati diretti contro i civili”.
In realtà, il conflitto libico può essere letto sia in termini politici che in termini tribali. I lavoratori immigrati sono stati le prime vittime. Essi sono stati brutalmente costretti ad andarsene. Gli scontri tra lealisti e ribelli sono stati realmente sanguinosi, ma non nelle proporzioni propagandate. Non vi è mai stata alcuna repressione sistematica contro i civili.
Sostenere la “primavera araba”
Durante il suo discorso al Consiglio di Sicurezza, il ministro francese degli affari esteri Alain Juppé ha tessuto le lodi della “primavera araba” in generale e della rivolta libica in particolare.
Questo discorso lirico cela in realtà intenzioni nefande: Juppé non ha detto neanche una parola sulla sanguinosa repressione in Yemen e in Bahrain, e ha perfino elogiato il re Mohammed VI del Marocco come fosse uno di quei rivoluzionari. Così facendo, ha contribuito a rafforzare l’immagine disastrosa della Francia che si è impressa nell’immaginario del mondo arabo durante la presidenza Sarkozy.
Sostenere l’Unione Africana e la Lega Araba
Fin dall’inizio delle operazioni, Francia, Regno Unito e Stati Uniti non hanno mai smesso di affermare che questa non è una guerra occidentale (anche se il Ministro degli Interni francese, Claude Guéant, ha parlato di una “crociata” di Nicolas Sarkozy). A sostegno di ciò, adducono il sostegno di cui la coalizione godrebbe da parte dell’Unione Africana e della Lega Araba. In realtà, l’Unione Africana ha sì condannato la repressione e ha affermato la legittimità delle rivendicazioni democratiche, ma si è sempre opposta ad un intervento militare straniero. Per quanto riguarda la Lega Araba, essa riunisce essenzialmente regimi che sono minacciati da rivoluzioni analoghe. Essi hanno sostenuto la contro-rivoluzione occidentale – alcuni vi hanno anche preso parte in Bahrain -, ma non possono appoggiare apertamente una guerra occidentale senza accelerare quei movimenti di contestazione interna che minacciano di rovesciarli.
Riconoscimento del Consiglio Nazionale di Transizione Libico
In Libia vi sono tre zone di insorgenza. Un Consiglio Nazionale di Transizione Libico è stato costituito a Bengasi. Esso si è fuso con un preesistente governo provvisorio istituito dall’ex Ministro della Giustizia di Gheddafi, passato dalla parte degli insorti. E’ proprio lui il personaggio che, secondo le autorità bulgare, avrebbe organizzato la tortura delle infermiere bulgare e del medico palestinese detenuti a lungo dal regime.
Riconoscendo questo CNTL e sdoganando il suo nuovo presidente, la coalizione si è scelta degli interlocutori e li ha poi imposti come leader agli insorti. Ciò ha permesso loro di estromettere i rivoluzionari nasseriani, comunisti o khomeinisti.
Si trattava di prendere l’iniziativa e di evitare quello che è successo in Tunisia ed Egitto, quando gli occidentali hanno imposto un governo senza Ben Ali, o un governo Suleiman senza Mubarak, che poi i rivoluzionari hanno nuovamente rovesciato.
Embargo sulle armi
Se l’obiettivo fosse stato quello di proteggere le popolazioni civili, l’embargo avrebbe dovuto essere istituito contro i mercenari e le armi destinati al regime di Gheddafi. Invece, l’embargo è stato esteso agli insorti in modo da impedire una loro possibile vittoria. L’obiettivo era in realtà quello di fermare la rivoluzione.
No Fly Zone
Se l’obiettivo fosse stato quello di proteggere i civili, la no-fly-zone avrebbe dovuto essere limitata al territorio degli insorti (come è stato fatto con il Kurdistan in Iraq). Invece è stato proibito il sorvolo in tutto il paese. In questo modo, la Coalizione spera di congelare l’equilibrio delle forze sul terreno e di dividere il paese in quattro (le tre aree ribelli e l’area lealista). Questa partizione de facto della Libia deve essere considerata in prospettiva, insieme a quelle del Sudan e della Costa d’Avorio, come una delle prime tappe di un “rimodellamento dell’Africa”.
Congelamento dei beni
Se l’obiettivo fosse stato quello di proteggere le popolazioni civili, solo i beni personali della famiglia Gheddafi e dei dignitari del regime avrebbero dovuto essere bloccati per impedire loro di aggirare l’embargo sulle armi. Invece il blocco è stato esteso al patrimonio di tutto lo Stato libico. Ora la Libia, nazione ricca di petrolio, dispone di un tesoro considerevole che ha in parte depositato nel Banco del Sud, un istituto per il finanziamento di progetti di sviluppo nel Terzo Mondo.
Come ha fatto notare il presidente venezuelano Hugo Chavez, questo blocco non mira a proteggere i civili. Esso mira a ripristinare il monopolio della Banca Mondiale e del FMI.
Coalizione dei volonterosi
Se l’obiettivo fosse stato quello di proteggere i civili, la risoluzione 1973 avrebbe dovuto essere attuata dalle Nazioni Unite. Invece, le operazioni militari sono state coordinate dalla US Africom e dovrebbero ora passare nelle mani della NATO. E’ per questo motivo che il ministro turco degli Affari Esteri, Ahmet Davutoglu, si è detto indignato per l’iniziativa francese e ha richiesto spiegazioni alla NATO.
In modo più brusco, il Primo Ministro russo Vladimir Putin ha affermato che la risoluzione è “imperfetta e inadeguata. Leggendola, risulta chiaro che essa permette a chiunque di agire contro uno Stato sovrano. Nel complesso, mi ricorda una chiamata medievale alla crociata”, ha concluso.
*Analista politico francese, fondatore e presidente del Rete Voltaire e dell’asse della conferenza Axis for Peace.
Si dice che la prima vittima della guerra sia la verità. Le operazioni militari in Libia e la risoluzione 1973 che ad esse fornisce base giuridica non fanno eccezione a questa regola.
DI THIERRY MEYSSAN *
Roma, 31 marzo 2011, Nena News – Per fornire un’immagine a fosche tinte, la stampa atlantista ha fatto credere che le centinaia di migliaia di persone in fuga dalla Libia stiano tentando di sfuggire a una strage. Le agenzie di stampa hanno evocato migliaia di morti e parlato di “crimini contro l’umanità”. La Risoluzione 1973 ha messo in guardia il Tribunale penale internazionale contro possibili “attacchi sistematici o generalizzati diretti contro i civili”.
In realtà, il conflitto libico può essere letto sia in termini politici che in termini tribali. I lavoratori immigrati sono stati le prime vittime. Essi sono stati brutalmente costretti ad andarsene. Gli scontri tra lealisti e ribelli sono stati realmente sanguinosi, ma non nelle proporzioni propagandate. Non vi è mai stata alcuna repressione sistematica contro i civili.
Sostenere la “primavera araba”
Durante il suo discorso al Consiglio di Sicurezza, il ministro francese degli affari esteri Alain Juppé ha tessuto le lodi della “primavera araba” in generale e della rivolta libica in particolare.
Questo discorso lirico cela in realtà intenzioni nefande: Juppé non ha detto neanche una parola sulla sanguinosa repressione in Yemen e in Bahrain, e ha perfino elogiato il re Mohammed VI del Marocco come fosse uno di quei rivoluzionari. Così facendo, ha contribuito a rafforzare l’immagine disastrosa della Francia che si è impressa nell’immaginario del mondo arabo durante la presidenza Sarkozy.
Sostenere l’Unione Africana e la Lega Araba
Fin dall’inizio delle operazioni, Francia, Regno Unito e Stati Uniti non hanno mai smesso di affermare che questa non è una guerra occidentale (anche se il Ministro degli Interni francese, Claude Guéant, ha parlato di una “crociata” di Nicolas Sarkozy). A sostegno di ciò, adducono il sostegno di cui la coalizione godrebbe da parte dell’Unione Africana e della Lega Araba. In realtà, l’Unione Africana ha sì condannato la repressione e ha affermato la legittimità delle rivendicazioni democratiche, ma si è sempre opposta ad un intervento militare straniero. Per quanto riguarda la Lega Araba, essa riunisce essenzialmente regimi che sono minacciati da rivoluzioni analoghe. Essi hanno sostenuto la contro-rivoluzione occidentale – alcuni vi hanno anche preso parte in Bahrain -, ma non possono appoggiare apertamente una guerra occidentale senza accelerare quei movimenti di contestazione interna che minacciano di rovesciarli.
Riconoscimento del Consiglio Nazionale di Transizione Libico
In Libia vi sono tre zone di insorgenza. Un Consiglio Nazionale di Transizione Libico è stato costituito a Bengasi. Esso si è fuso con un preesistente governo provvisorio istituito dall’ex Ministro della Giustizia di Gheddafi, passato dalla parte degli insorti. E’ proprio lui il personaggio che, secondo le autorità bulgare, avrebbe organizzato la tortura delle infermiere bulgare e del medico palestinese detenuti a lungo dal regime.
Riconoscendo questo CNTL e sdoganando il suo nuovo presidente, la coalizione si è scelta degli interlocutori e li ha poi imposti come leader agli insorti. Ciò ha permesso loro di estromettere i rivoluzionari nasseriani, comunisti o khomeinisti.
Si trattava di prendere l’iniziativa e di evitare quello che è successo in Tunisia ed Egitto, quando gli occidentali hanno imposto un governo senza Ben Ali, o un governo Suleiman senza Mubarak, che poi i rivoluzionari hanno nuovamente rovesciato.
Embargo sulle armi
Se l’obiettivo fosse stato quello di proteggere le popolazioni civili, l’embargo avrebbe dovuto essere istituito contro i mercenari e le armi destinati al regime di Gheddafi. Invece, l’embargo è stato esteso agli insorti in modo da impedire una loro possibile vittoria. L’obiettivo era in realtà quello di fermare la rivoluzione.
No Fly Zone
Se l’obiettivo fosse stato quello di proteggere i civili, la no-fly-zone avrebbe dovuto essere limitata al territorio degli insorti (come è stato fatto con il Kurdistan in Iraq). Invece è stato proibito il sorvolo in tutto il paese. In questo modo, la Coalizione spera di congelare l’equilibrio delle forze sul terreno e di dividere il paese in quattro (le tre aree ribelli e l’area lealista). Questa partizione de facto della Libia deve essere considerata in prospettiva, insieme a quelle del Sudan e della Costa d’Avorio, come una delle prime tappe di un “rimodellamento dell’Africa”.
Congelamento dei beni
Se l’obiettivo fosse stato quello di proteggere le popolazioni civili, solo i beni personali della famiglia Gheddafi e dei dignitari del regime avrebbero dovuto essere bloccati per impedire loro di aggirare l’embargo sulle armi. Invece il blocco è stato esteso al patrimonio di tutto lo Stato libico. Ora la Libia, nazione ricca di petrolio, dispone di un tesoro considerevole che ha in parte depositato nel Banco del Sud, un istituto per il finanziamento di progetti di sviluppo nel Terzo Mondo.
Come ha fatto notare il presidente venezuelano Hugo Chavez, questo blocco non mira a proteggere i civili. Esso mira a ripristinare il monopolio della Banca Mondiale e del FMI.
Coalizione dei volonterosi
Se l’obiettivo fosse stato quello di proteggere i civili, la risoluzione 1973 avrebbe dovuto essere attuata dalle Nazioni Unite. Invece, le operazioni militari sono state coordinate dalla US Africom e dovrebbero ora passare nelle mani della NATO. E’ per questo motivo che il ministro turco degli Affari Esteri, Ahmet Davutoglu, si è detto indignato per l’iniziativa francese e ha richiesto spiegazioni alla NATO.
In modo più brusco, il Primo Ministro russo Vladimir Putin ha affermato che la risoluzione è “imperfetta e inadeguata. Leggendola, risulta chiaro che essa permette a chiunque di agire contro uno Stato sovrano. Nel complesso, mi ricorda una chiamata medievale alla crociata”, ha concluso.
*Analista politico francese, fondatore e presidente del Rete Voltaire e dell’asse della conferenza Axis for Peace.
giovedì 31 marzo 2011
Disintossicarsi dall’ interventismo *
Se si dovessero trasformare in un azione concreta i discorsi di un intervento in Libia, questa sarebbe illegale, immorale e ipocrita.
di Richard Falk
Ciò che a prima vista sorprende nella richiesta bi-partisan fatta a Washington di una no-fly zone e di attacchi aerei designati ad aiutare le forze ribelli in Libia, è l’assenza di qualsiasi preoccupazione per l’importanza della legge internazionale o dell’autorità delle Nazioni Unite.
Nessuno che abbia una qualche autorità si prende la pena di elaborare qualche tipo di razionalizzazione legale. I “realisti” al potere le cui parole riecheggiano dai media tradizionali, non sentono alcun bisogno di fornire neanche una foglia di fico legale prima di imbarcarsi in una guerra di aggressione.
Dovrebbe essere ovvio che una no-fly zone nello spazio aereo libico è un atto di guerra, come lo sarebbero, naturalmente attacchi aerei sulle fortificazioni delle forze di Gheddafi già presi in considerazione.
L’obbligo legale fondamentale della carta delle Nazioni Unite richiede che gli stati membri si astengano dall’uso della forza di qualsiasi tipo, a meno che non venga giustificato come auto-difesa dopo un attacco armato al di là del confine oppure avendo un mandato avuto su deliberazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Nessuna di queste due condizioni che autorizzano l’uso legale della forza è neanche lontanamente presente, e tuttavia la discussione sui media e nei circoli politici di Washington va avanti come se gli unici problemi degni di discussione fossero quelli riguardanti la fattibilità, i costi, i rischi, e possibili conseguenze nel mondo arabo.
La mentalità imperiale non è incline a discutere la questione della legalità, e non dimostra neanche un comportamento rispettoso dei vincoli insiti nella legge internazionale.
Casi difficili
Non si potrebbe sostenere che in situazioni di emergenza umanitaria esiste uno “stato di eccezionalità che permette a una coalizione di volenterosi di effettuare un intervento che però non peggiori la situazione? Non è stato questo la spiegazione morale e politica per la guerra della NATO in Kosovo nel 1999 che probabilmente risparmiò alla maggior parte della popolazione albanese che viveva in quel paese un sanguinoso episodio di pulizia etnica per mano degli occupanti serbi assediati?
Come è noto, i casi difficili possono avere brutti precedenti. Perfino i brutti precedenti, però, devono trovare una giustificazione nelle circostanze di una nuova situazione dichiarata di eccezionalità dichiarata o altrimenti ci sarebbe un forte incentivo per l’opinione pubblica pensare che i potenti agiscono come vogliono senza neanche fermarsi a fare una discussione onesta s u come allontanarsi dal normale regime legale di moderazione.
Per quanto riguarda la Libia, dobbiamo tener conto del fatto che il governo di Gheddafi, per quanto ripugnante dal punto di vista dei diritti umani, rimane il rappresentante diplomatico legale di uno stato sovrano, e qualsiasi uso della forza da parte di altri paesi e perfino dall’ONU, ancora meno da parte di un solo stato o da gruppi di stati, costruirebbe in intervento illegale negli affari interni di uno stato sovrano, il che è proibito dall’’Articolo 2 (7) della Carta dell’ONU a meno che non sia stato espressamente autorizzato dal Consiglio di sicurezza come essenziale per il bene della pace e della sicurezza internazionale.
Oltre a ciò, non c’è nessuna assicurazione che una volta intrapreso, l’intervento diminuirebbe le sofferenze del popolo libico o porterebbe al potere un regime più rispettoso dei diritti umani e votato alla partecipazione democratica.
L’archivio degli interventi militari degli ultimi decenni è una lista quasi ininterrotta di fallimenti se si prendono in dovuto conto sia i costi umani che i risultati politici.
Questa esperienza di interventi nel mondo islamico durante gli ultimi 50 anni rende impossibile sostenere il peso della persuasione che sarebbe necessaria per giustificare un intervento contro il regime in Libia in modo eticamente e legalmente persuasivo.
Un problema di credibilità
Ci sono anche preoccupazioni per la credibilità. Come si è ampiamente osservato nelle recenti settimane, gli Stati Uniti da decenni non hanno avuto alcun ripensamento per quanto riguarda l’appoggio ai regimi oppressivi in quelle zone, e c’è molto risentimento nei loro confronti da parte dai vari movimenti anti-regime per questo loro ruolo.
I crimini di Gheddafi contro l’umanità non sono mai stati un segreto e sono certo largamente noti dei servizi segreti di Europa e Stati Uniti. Anche gli intellettuali liberali di grande rilievo, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti hanno accolto volentieri molti inviti a Tripoli in negli scorsi anni, apparentemente senza un barlume di coscienza, hanno accettato compensi per consulenze e hanno scritto senza vergognarsene valutazioni positive che lodavano l’autoritarismo libico che si stava diventando meno rigido.
Forse Joseph Nye, uno dei più importanti tra questi visitatori di buona volontà che sono andati di recente a Tripoli, chiamerebbe questo atteggiamento un uso privato di “potere intraprendente” e loderebbe Gheddafi per aver rinunciato al suo atteggiamento anti-occidentale, per aver fatto affari con il petrolio e le armi, e soprattutto per aver abbandonato quello che alcuni ora dicono fosse un programma fantasma di armi nucleari.
I sapientoni della Beltway (la tangenziale di Washington) insistono durante i talk show che gli “interventisti” dopo aver vacillato quelle zone, vogliono scegliere il lato giusto della storia prima che sia troppo tardi. Ma quello che sembra il lato giusto della storia in Libia appare molto diverso da quello che è considerato giusto in Bahrain o in Giordania e anche in tutto il resto del Medio Oriente. La storia sembra scorrere seguendo le correnti dei fiumi, proprio come fa il petrolio!
Altrove, lo sforzo è inteso a ripristinare la stabilità con minime concessioni alle richieste riformiste, sperando di riuscire ad allontanarsi con un ritocco politico destinato a trasformare gli insorti di ieri nei burocrati di domani.
Mahmoud Mamdani ci ha insegnato a distinguere i “musulmani buoni” dai “musulmani cattivi”, ora ci si insegna a fare distinzione tra “despoti buoni” e “despoti cattivi”.
Secondo questa definizione, soltanto gli elementi favorevoli al regime in Libia e in Iran si qualificano come despoti cattivi, e le loro strutture devono essere almeno scosse se non si possono sfasciare.
Che cosa distingue questi regimi? Non sembra che quello che li distingue sia il loro grado di oppressività più diffuso e grave rispetto a quello osservato in altri casi.. Altre considerazioni danno un’idea più chiara: l’accesso al petrolio e fissarne i prezzi, le vendite di armi, la sicurezza di Israele, il rapporto con l’economia neoliberale mondiale.
Ciò che trovo più inquietante, è che malgrado i fallimenti della teoria e della pratica della controinsurrezione, i guru della politica estera americana continuano a prendere in considerazione l’intervento nelle società post-coloniali senza farsi scrupoli o senza far mostra della minima sensibilità per l’esperienza storica, e senza neanche riconoscere che la resistenza nazionale nel mondo post-coloniale ha neutralizzato costantemente i vantaggi della forza materiale superiore dispiegati dalla potenza che interviene.
Si è soltanto udita un’espressione di preoccupazione sussurrata dal segretario alla difesa Robert Gates, che è relativamente circospetto: “potrebbe non essere prudente in questo momento che gli Stati Uniti intervengano in un’altra nazione islamica.”
Il passato ignorato
E’ sorprende quanto sia ignorata la lezione del Vietnam, dell’Afghanistan, dell’Iraq, sottolineata dalla glorificazione del generale Petraeus che è diventato una celebrità militare dopo che gli si è riconosciuto di aver trovato un nuovo approccio dell’esercito alla controinsurrezione, che, nel gergo del Pentagono significa intervento a favore del regime.
Altre situazioni importanti attuali che illustrino quanto detto sono l’Afghanistan, l’Iraq, e molti altri luoghi in Medio Oriente. Parlando da un punto di vista tecnico, il proposto intervento in Libia non è un esempio di controinsurrezione, ma è piuttosto un intervento a favore dell’ insurrezione, come lo sono stati anche gli sforzi segreti di destabilizzazione In Iran che continuano ancora.
E’ più facile comprendere la resistenza professionale ad imparare la lezione dei fallimenti passati da parte dei comandanti militari, fa parte della loro vita quotidiana, ma i civili che fanno politica non meritano neanche la minima comprensione.
Tra i più ardenti sostenitori dell’intervento in Libia ci sono: l’ultimo candidato repubblicano alla presidenza, John McCain, Joe Liebermann, apparentemente indipendente, e il democratico e pro-Obama John Kerry.
Sembra che a molti dei repubblicani che si siano concentrati sul deficit sebbene i tagli alla spesa pubblica puniscano i poveri in un periodo di disoccupazione diffusa e di sfratti dalle case, non importerebbe pagare innumerevoli miliardi per finanziare azioni militari in Libia.
Esiste una preoccupante prontezza a buttare soldi e armi per un conflitto oltremare, apparentemente per dimostrare che le geopolitica imperiale non è ancora morta malgrado le prove sempre più numerose del declino americano.
Infine, suppongo che dobbiamo sperare che quelle voci imperiali più caute che basano la loro opposizione all’intervento sulle preoccupazioni per la sua fattibilità, vincano la loro battaglia!
Ciò che qui voglio soprattutto denigrare nel dibattito sulla Libia sono i tre tipi di fallimento delle politiche.
° Il non considerare la legge internazionale e l’ONU argomenti pertinenti nei dibattiti nazionali sugli usi internazionali della forza;
° La mancanza di rispetto per le dinamiche di auto-determinazione nelle società del sud del mondo;
° Il rifiuto di prestare attenzione all’etica e alla politica appropriate a un ordine mondiale post-coloniale che si sta de-occidentalizzando e che sta diventando sempre più multi-polare.
Richard Falk è Professor Emeritus di Legge Internazionale alla cattedra intitolata ad Albert G. Milbank all’Università di Princeton, e Visiting Distinguished Professor di Studi Globali e Internazionali all’Università della California, a Santa Barbara. Ha scritto e curato numerose pubblicazioni nell’arco di 50 anni. Il più recente volume da lui curato è : International Law and the Third World:Reshaping Justice (Routledge, 2008). (La legge internazionale e il terzo mondo: ridisegnare la giustizia. N.d:T.)
Attualmente sta svolgendo il terzo anno di in periodo di sei anni come Relatore Speciale dell’ONU per i diritti umani dei Palestinesi.
* to kick the habit: termine del gergo usato chi assume droghe; sta per disintossicarsi
di Richard Falk
Ciò che a prima vista sorprende nella richiesta bi-partisan fatta a Washington di una no-fly zone e di attacchi aerei designati ad aiutare le forze ribelli in Libia, è l’assenza di qualsiasi preoccupazione per l’importanza della legge internazionale o dell’autorità delle Nazioni Unite.
Nessuno che abbia una qualche autorità si prende la pena di elaborare qualche tipo di razionalizzazione legale. I “realisti” al potere le cui parole riecheggiano dai media tradizionali, non sentono alcun bisogno di fornire neanche una foglia di fico legale prima di imbarcarsi in una guerra di aggressione.
Dovrebbe essere ovvio che una no-fly zone nello spazio aereo libico è un atto di guerra, come lo sarebbero, naturalmente attacchi aerei sulle fortificazioni delle forze di Gheddafi già presi in considerazione.
L’obbligo legale fondamentale della carta delle Nazioni Unite richiede che gli stati membri si astengano dall’uso della forza di qualsiasi tipo, a meno che non venga giustificato come auto-difesa dopo un attacco armato al di là del confine oppure avendo un mandato avuto su deliberazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Nessuna di queste due condizioni che autorizzano l’uso legale della forza è neanche lontanamente presente, e tuttavia la discussione sui media e nei circoli politici di Washington va avanti come se gli unici problemi degni di discussione fossero quelli riguardanti la fattibilità, i costi, i rischi, e possibili conseguenze nel mondo arabo.
La mentalità imperiale non è incline a discutere la questione della legalità, e non dimostra neanche un comportamento rispettoso dei vincoli insiti nella legge internazionale.
Casi difficili
Non si potrebbe sostenere che in situazioni di emergenza umanitaria esiste uno “stato di eccezionalità che permette a una coalizione di volenterosi di effettuare un intervento che però non peggiori la situazione? Non è stato questo la spiegazione morale e politica per la guerra della NATO in Kosovo nel 1999 che probabilmente risparmiò alla maggior parte della popolazione albanese che viveva in quel paese un sanguinoso episodio di pulizia etnica per mano degli occupanti serbi assediati?
Come è noto, i casi difficili possono avere brutti precedenti. Perfino i brutti precedenti, però, devono trovare una giustificazione nelle circostanze di una nuova situazione dichiarata di eccezionalità dichiarata o altrimenti ci sarebbe un forte incentivo per l’opinione pubblica pensare che i potenti agiscono come vogliono senza neanche fermarsi a fare una discussione onesta s u come allontanarsi dal normale regime legale di moderazione.
Per quanto riguarda la Libia, dobbiamo tener conto del fatto che il governo di Gheddafi, per quanto ripugnante dal punto di vista dei diritti umani, rimane il rappresentante diplomatico legale di uno stato sovrano, e qualsiasi uso della forza da parte di altri paesi e perfino dall’ONU, ancora meno da parte di un solo stato o da gruppi di stati, costruirebbe in intervento illegale negli affari interni di uno stato sovrano, il che è proibito dall’’Articolo 2 (7) della Carta dell’ONU a meno che non sia stato espressamente autorizzato dal Consiglio di sicurezza come essenziale per il bene della pace e della sicurezza internazionale.
Oltre a ciò, non c’è nessuna assicurazione che una volta intrapreso, l’intervento diminuirebbe le sofferenze del popolo libico o porterebbe al potere un regime più rispettoso dei diritti umani e votato alla partecipazione democratica.
L’archivio degli interventi militari degli ultimi decenni è una lista quasi ininterrotta di fallimenti se si prendono in dovuto conto sia i costi umani che i risultati politici.
Questa esperienza di interventi nel mondo islamico durante gli ultimi 50 anni rende impossibile sostenere il peso della persuasione che sarebbe necessaria per giustificare un intervento contro il regime in Libia in modo eticamente e legalmente persuasivo.
Un problema di credibilità
Ci sono anche preoccupazioni per la credibilità. Come si è ampiamente osservato nelle recenti settimane, gli Stati Uniti da decenni non hanno avuto alcun ripensamento per quanto riguarda l’appoggio ai regimi oppressivi in quelle zone, e c’è molto risentimento nei loro confronti da parte dai vari movimenti anti-regime per questo loro ruolo.
I crimini di Gheddafi contro l’umanità non sono mai stati un segreto e sono certo largamente noti dei servizi segreti di Europa e Stati Uniti. Anche gli intellettuali liberali di grande rilievo, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti hanno accolto volentieri molti inviti a Tripoli in negli scorsi anni, apparentemente senza un barlume di coscienza, hanno accettato compensi per consulenze e hanno scritto senza vergognarsene valutazioni positive che lodavano l’autoritarismo libico che si stava diventando meno rigido.
Forse Joseph Nye, uno dei più importanti tra questi visitatori di buona volontà che sono andati di recente a Tripoli, chiamerebbe questo atteggiamento un uso privato di “potere intraprendente” e loderebbe Gheddafi per aver rinunciato al suo atteggiamento anti-occidentale, per aver fatto affari con il petrolio e le armi, e soprattutto per aver abbandonato quello che alcuni ora dicono fosse un programma fantasma di armi nucleari.
I sapientoni della Beltway (la tangenziale di Washington) insistono durante i talk show che gli “interventisti” dopo aver vacillato quelle zone, vogliono scegliere il lato giusto della storia prima che sia troppo tardi. Ma quello che sembra il lato giusto della storia in Libia appare molto diverso da quello che è considerato giusto in Bahrain o in Giordania e anche in tutto il resto del Medio Oriente. La storia sembra scorrere seguendo le correnti dei fiumi, proprio come fa il petrolio!
Altrove, lo sforzo è inteso a ripristinare la stabilità con minime concessioni alle richieste riformiste, sperando di riuscire ad allontanarsi con un ritocco politico destinato a trasformare gli insorti di ieri nei burocrati di domani.
Mahmoud Mamdani ci ha insegnato a distinguere i “musulmani buoni” dai “musulmani cattivi”, ora ci si insegna a fare distinzione tra “despoti buoni” e “despoti cattivi”.
Secondo questa definizione, soltanto gli elementi favorevoli al regime in Libia e in Iran si qualificano come despoti cattivi, e le loro strutture devono essere almeno scosse se non si possono sfasciare.
Che cosa distingue questi regimi? Non sembra che quello che li distingue sia il loro grado di oppressività più diffuso e grave rispetto a quello osservato in altri casi.. Altre considerazioni danno un’idea più chiara: l’accesso al petrolio e fissarne i prezzi, le vendite di armi, la sicurezza di Israele, il rapporto con l’economia neoliberale mondiale.
Ciò che trovo più inquietante, è che malgrado i fallimenti della teoria e della pratica della controinsurrezione, i guru della politica estera americana continuano a prendere in considerazione l’intervento nelle società post-coloniali senza farsi scrupoli o senza far mostra della minima sensibilità per l’esperienza storica, e senza neanche riconoscere che la resistenza nazionale nel mondo post-coloniale ha neutralizzato costantemente i vantaggi della forza materiale superiore dispiegati dalla potenza che interviene.
Si è soltanto udita un’espressione di preoccupazione sussurrata dal segretario alla difesa Robert Gates, che è relativamente circospetto: “potrebbe non essere prudente in questo momento che gli Stati Uniti intervengano in un’altra nazione islamica.”
Il passato ignorato
E’ sorprende quanto sia ignorata la lezione del Vietnam, dell’Afghanistan, dell’Iraq, sottolineata dalla glorificazione del generale Petraeus che è diventato una celebrità militare dopo che gli si è riconosciuto di aver trovato un nuovo approccio dell’esercito alla controinsurrezione, che, nel gergo del Pentagono significa intervento a favore del regime.
Altre situazioni importanti attuali che illustrino quanto detto sono l’Afghanistan, l’Iraq, e molti altri luoghi in Medio Oriente. Parlando da un punto di vista tecnico, il proposto intervento in Libia non è un esempio di controinsurrezione, ma è piuttosto un intervento a favore dell’ insurrezione, come lo sono stati anche gli sforzi segreti di destabilizzazione In Iran che continuano ancora.
E’ più facile comprendere la resistenza professionale ad imparare la lezione dei fallimenti passati da parte dei comandanti militari, fa parte della loro vita quotidiana, ma i civili che fanno politica non meritano neanche la minima comprensione.
Tra i più ardenti sostenitori dell’intervento in Libia ci sono: l’ultimo candidato repubblicano alla presidenza, John McCain, Joe Liebermann, apparentemente indipendente, e il democratico e pro-Obama John Kerry.
Sembra che a molti dei repubblicani che si siano concentrati sul deficit sebbene i tagli alla spesa pubblica puniscano i poveri in un periodo di disoccupazione diffusa e di sfratti dalle case, non importerebbe pagare innumerevoli miliardi per finanziare azioni militari in Libia.
Esiste una preoccupante prontezza a buttare soldi e armi per un conflitto oltremare, apparentemente per dimostrare che le geopolitica imperiale non è ancora morta malgrado le prove sempre più numerose del declino americano.
Infine, suppongo che dobbiamo sperare che quelle voci imperiali più caute che basano la loro opposizione all’intervento sulle preoccupazioni per la sua fattibilità, vincano la loro battaglia!
Ciò che qui voglio soprattutto denigrare nel dibattito sulla Libia sono i tre tipi di fallimento delle politiche.
° Il non considerare la legge internazionale e l’ONU argomenti pertinenti nei dibattiti nazionali sugli usi internazionali della forza;
° La mancanza di rispetto per le dinamiche di auto-determinazione nelle società del sud del mondo;
° Il rifiuto di prestare attenzione all’etica e alla politica appropriate a un ordine mondiale post-coloniale che si sta de-occidentalizzando e che sta diventando sempre più multi-polare.
Richard Falk è Professor Emeritus di Legge Internazionale alla cattedra intitolata ad Albert G. Milbank all’Università di Princeton, e Visiting Distinguished Professor di Studi Globali e Internazionali all’Università della California, a Santa Barbara. Ha scritto e curato numerose pubblicazioni nell’arco di 50 anni. Il più recente volume da lui curato è : International Law and the Third World:Reshaping Justice (Routledge, 2008). (La legge internazionale e il terzo mondo: ridisegnare la giustizia. N.d:T.)
Attualmente sta svolgendo il terzo anno di in periodo di sei anni come Relatore Speciale dell’ONU per i diritti umani dei Palestinesi.
* to kick the habit: termine del gergo usato chi assume droghe; sta per disintossicarsi
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