sabato 7 luglio 2007

CON GLI OCCHI DI GADI


-La libertà è un dono amaro!-
Sospirò lo zio Zac scuotendo la testa. Avevano parlato della faccenda di Yossi riuniti attorno alla tavola. Era venuto anche il nonno rabbino, un signore alto e imponente con una bella barba bianca. Cosa bisognava fare Con Yossi non a tutti era chiaro. Alla polizia si, dato che lo aveva messo in prigione. Fuori scoppiava il sole come un incendio, ma i parenti impegnati nella discussione non ci badavano. Pensavano ad altri scoppi. Gadi fu mandato dalla mamma a prendere qualcosa in cucina e lo fece molto velocemente perché sospettava di essere stato allontanato di proposito e non voleva perdere una virgola del discorso attorno a suo fratello Yossi. Rientrando in sala da pranzo inciampò nel grosso corpo peloso della cagna Mazal e la gatta Dafna che le dormiva sulla groppa rotolò giù seccata, miagolando la sua protesta.
-Hai ottenuto un bel risultato Margalit!-
Questo era il babbo e aveva la faccia scura.
-Ne abbiamo fatto un amico dei terroristi!-
-Calma, calma!- ammonì il nonno
-E' solo un ragazzo sensibile!-
-Certo!- interruppe con vivacità la zia Micol
-Li abbiamo tutti dalla nostra parte i pacifisti sensibili! Noi abbiamo i pacifisti mentre quelli si fanno saltare in aria perfino nelle pizzerie!-
Gadi rabbrividì. A sentire sua zia sembrava che farsi saltare in aria fosse uno sport. Come se non si morisse! Come se non si andasse in mille pezzi! Due mesi addietro prima che Yossi si rifiutasse di andare nei territori occupati e facesse obiezione di coscienza erano andati assieme al ristorante italiano a mangiare una pizza. Yossi aveva dimenticato il portafogli in macchina e Gadi si era offerto di andarlo a prendere. Mentre tornava aveva visto alzarsi una palla di fuoco e poi detriti di legno e metallo schizzare verso l'alto. Guardandosi intorno Gadi vide gente a terra coperta di sangue. Un uomo in ginocchio sull'asfalto stringeva il corpo di un bambino inerte gridando più delle sirene. Una donna era rimasta seduta immobile davanti al tavolo che non c'era più, sangue e brandelli di corpi dappertutto. Tra scene di panico indescrivibili i poliziotti transennavano le strade. Si accorse di avere sangue sulla maglietta e sulle scarpe, ma non era suo. Aveva rintracciato Yossi pallido e tremante, miracolosamente illeso.
-Perché?- Aveva domandato al fratello
-Perché Yossi?-
Ma lui aveva taciuto. Prima l'aveva sempre avuta una risposta, quella volta invece aveva afferrato la sua mano trascinandolo via. Poi era scoppiato a piangere. Gadi capì che viene un momento in cui si può parlare solo con le lacrime e sentì che tutto era fragile e provvisorio e pieno di dolore. Tra i frammenti dei corpi umani sparsi c'erano anche quelli dell'attentatore, così gli ebrei ortodossi che raccoglievano i pezzi per dar loro sepoltura, potevano rischiare di mescolarli e confonderli pensò Gadi e questo gli parve assurdamente comico.
-Credi che Farid potrebbe diventare un terrorista?-
Chiese a suo fratello quando si fu calmato. Yossi che si stava soffiando il naso, rise brevemente, ma di cuore. Trovava la cosa comica. Anche Gadi ne convenne, sebbene in certi momenti tutto gli sembrava possibile. Poi Yossi, che voleva vedere degli amici, se ne andò e Gadi tornò a casa da solo. Mentre camminava vide che un gruppo di persone s'era dato a lapidare la moschea. Benchè avesse tirato dritto affrettando il passo non aveva potuto fare a meno di cogliere tra gli scalmanati che gridavano:
-A morte gli arabi! Senza gli arabi niente attentati!-
l'impeto di una signora anziana molto grassa che dichiarava volere farsi esplodere in mezzo ai palestinesi come facevano loro. Si sforzò di non ridere e gli riuscì difficile perché la tensione era forte e rischiava di dilagare in un irrefrenabile riso isterico. Quando girò l'angolo fu quasi travolto dalla corsa disperata di un gruppo di persone inseguite. Erano degli arabi che si trovavano per strada in quel momento, ma non c'entravano con l'attentato. Gadi capì che stavano rischiando il linciaggio. Sebbene non ne avesse ragione fu preso dal panico e corse anche lui. Si rifugiò in un portone per prendere fiato e vide che c'era già un ragazzo arabo appena un po’ più grande. Era terrorizzato e gli fece cenno di non tradirlo. Gadi fu assalito dalla voglia impellente di vomitare. Si sentì veramente male e mentre si rimetteva sulla via di casa gli tornavano in mente i versi del Qoélet che aveva da poco studiato a scuola:
"I colpevoli sembrano innocenti e gli innocenti colpevoli".

La discussione si era animata dopo l'arrivo di suo cugino Uri. In quel momento stava rispondendo alla zia Micol che aveva detto:
-L'esercito è fatto soprattutto di padri di famiglia che non hanno mai sparato sulla popolazione inerme-
Uri si era arrabbiato e aveva gridato:
-E allora mi fai il piacere di dire chi ha ammazzato 500 persone?
-I palestinesi non accettano la diversità ebraica, non ci capiscono. Molti sono negazionisti, lo sapevi questo Uri, ragazzo mio?-
Disse pacatamente lo zio Zac.
-Hanno teorizzato in articoli stampati e on line che la Shoah non c'è mai stata e che si tratta di una nostra invenzione per prendere un po’ di soldi di risarcimento.-
-Va bene- disse Uri più calmo,
-ma anche noi non li comprendiamo e non ci importa nulla di loro. La verità è che ci accorgiamo che esistono solo quando scoppiano in mezzo a noi-
-Sono dei vigliacchi che si nascondono dietro i bambini!-
Il papà di Gadi che era rimasto, torvo, in silenzio parlò come se scoppiasse e invece delle parole gli uscissero schegge dalla bocca. Uri si girò a guardarlo quasi stupito.
"Ancora i bambini" pensò Gadi. Non si era mai parlato tanto di una categoria di persone così sprovvista di potere e di qualifica.
-I palestinesi non hanno alcun progetto di emancipazione continuò il babbo.
-Il sogno di questa massa è quello di ottenere la cittadinanza israeliana perché gli siano garantiti il diritto allo studio, alla sanità ecc che l'amministrazione palestinese concede solo in cambio di bustarelle-
Il babbo usava spesso questa forma di denigrazione: svuotare i contenuti degli altri. Aveva fatto così anche con Yossi, era il suo modo di procedere con ogni genere di nemico e forse Yossi era suo nemico anche più dei palestinesi.
Temendo un contrattacco di Uri, Gadi si coprì le orecchie con le mani. Ora li vedeva, ma non li sentiva. Vedeva i loro gesti concitati, i volti contratti e Uri si era addirittura alzato in piedi. Gadi si tolse un attimo le mani dalle orecchie. la zia stava dicendo che Arafat avrebbe dovuto firmare la pace a Camp David quando Barak aveva offerto il massimo, Uri aveva risposto:
Balle! Barak aveva offerto una discarica, era un imbroglio, come ormai sanno tutti e come ha scritto chiaramente "Aharetz"-
Ora anche il babbo si alzava in piedi, era livido e Gadi si aspettava qualsiasi cosa terribile.
-Tu e quel campione di mio figlio!- stava urlando
-Avete offeso e imbrattato il mio buon nome, il mio senso della morale!-
Il babbo andava in crescendo:
-La mia civiltà, il mio essere uomo, israeliano, ebreo…-
Uri lo interruppe violentemente:
-Stronzo non ce lo metti?- E uscì sbattendo la porta. Gadi capì perché Yossi aveva pianto.

Il nonno si era accovacciato per scompigliare i capelli di Gadi che si era rifugiato tra il pelo arruffato di Mazal. Anche così era imponente. Il suo aspetto intimidiva, ma il sorriso era buono e gentile.
-Non perdere mai la tua anima- aveva detto a Gadi
-e non perdere mai la speranza-
-Non c'è più niente da fare, nonno-
aveva sussurrato Gadi, ma lui aveva scosso la testa sorridendo:
-Questo no, c'è sempre qualcosa da fare, è soltanto più difficile-.

Molto prima che cominciasse quel lungo incubo Yossi lo aveva portato con se sulla spiaggia.
-Ti divertirai- gli aveva detto. Gruppi di bambini israeliani e palestinesi si erano organizzati per pulire insieme il lungomare. In quella occasione aveva conosciuto Farid ed erano diventati inseparabili. Gadi non sapeva di avere tante cose da comunicare prima di conoscerlo. Scoprì che ci sono delle persone con le quali le parole acquistano un altro peso. Yossi e la sorella grande di Farid si volevano bene, ma quando il babbo lo aveva saputo era andato su tutte le furie. Anche i genitori della ragazza lo avevano saputo e l'avevano chiusa in casa. Yossi ci aveva fatto una malattia.
-Ci sono tante brave ragazze ebree!-
Aveva detto la mamma, forse per consolarlo. Da grande Farid voleva fare lo scrittore. Era bravo a scuola, ma si distraeva in classe per scrivere poesie sulle copertine dei quaderni. Conclusa l'esperienza che li aveva fatti conoscere, avevano continuato a vedersi e a comunicare per e.mail. Farid aveva fatto anche da tramite tra Yossi e sua sorella per uno scambio segreto di messaggi.
Poi c'era stata la famosa passeggiata di Sharon sulla spianata del tempio e da allora "un abisso aveva chiamato un altro abisso" Dopo la chiusura dei territori non avevano potuto più vedersi ed avevano comunicato solo via internet.
Quando Barak aveva fatto bombardare Gaza, Gadi aveva passato momenti terribili. l'attacco era stato ripreso in televisione. Impietrito, annientato dal senso di impotenza, guardava abbattersi l'inferno sulla città dove abitava Farid e avrebbe voluto fermarlo con la forza della sua preghiera. Perché il Signore non ascoltava la preghiera dei bambini? Gadi non riusciva a capirlo. Anche Farid pregava che smettesse.
-Ho paura di morire- aveva chattato a Gadi "ho sempre più paura".
Intanto era successa una cosa che aveva tramortito Yossi dal dolore. In un secondo momento però quel dolore si era rappreso in una forza da cui si sentì trasformato. La sorella di Farid che, sofferente di cuore fin da piccola necessitava di continui controlli, aveva avuto una crisi cardiaca. La corsa fino all'ospedale che le avrebbe salvato la vita era stata interrotta al posto di blocco. Benché il padre di Farid avesse spiegato la gravità della situazione non c'era stato nulla da fare. Bloccati al ceck-point per 40 minuti i familiari della ragazza avevano assistiti impotenti alla sua morte. Yossi lo aveva saputo da Gadi che era stato informato da Farid per posta elettronica.
Si chiuse in camera sua e vi uscì dopo 3 giorni. Quando vide la sua faccia Gadi si spaventò: era così dura che non riconobbe suo fratello. Dopo qualche tempo arrivò l'avviso per il servizio di leva e Yossi non ebbe dubbi si cosa volesse fare.
Poi a Barak era succeduto Sharon e si erano spente anche le ultime scintille di speranza. Uri aveva detto che Sharon non sarebbe potuto durare perché era un personaggio troppo squalificato. Era già strano che fosse riuscito ad andare al governo. Ci era andato solo grazie alla situazione disperata, alla mancanza totale di prospettive e alla conseguente rimonta della destra. Purtroppo aveva avuto torto. Era morta tantissima gente giovane, ma lui, vecchio com'era e già saturo di peccati era ancora saldo in sella. A scuola si era parlato della durezza di cuore del faraone quando non aveva voluto lasciare andare gli ebrei e Mosè era stato costretto a fare il miracolo delle dieci piaghe. La morah diceva che il Signore è disposto a perdonare in qualsiasi momento, ma c'è un punto oltre il quale non bisogna andare perché da lì non si può più tornare indietro. Si rimane imprigionati nella propria durezza come in una tomba.
Gadi immaginava che Sharon avendo superato in durezza anche il faraone fosse ormai un uomo privo di anima.
Aveva cominciato a sognare. Sognava anche prima, ma era cambiata la qualità dei suoi sogni, erano diventati vividi e significativi. Una notte sognò che era crollata la spianata del tempio con le moschee e il muro del pianto. Si svegliò di colpo. Avrebbe dovuto essere angosciato, invece si sentì sollevato. Durante questo sogno aveva udito una voce sommessa come un soffio di vento sussurrare:
"Ora che non ci sono più luoghi sacri possiamo occuparci delle persone". Gadi era certo trattarsi della voce stessa di Dio. In un altro sogno tendeva la mano verso Gaza per stringere quella di Farid, ma scoppiava un incendio.
Il giorno dopo ricevette una sua e.mail. Diceva che i genitori erano stati uccisi durante il ritorno da una festa di matrimonio da colpi sparati dai soldati, o dai coloni, non era chiaro, sulla macchina guidata dal padre di Farid. Lui doveva andare presso una zia a Rafah, la zia non aveva il computer e quindi non poteva mandargli più messaggi. Diceva anche che aveva scritto molte lettere da mandare ai giornali israeliani, ma poiché nessuno avrebbe preso in considerazione un ragazzino palestinese gracile e occhialuto, aveva inventato che gli autori delle lettere fossero personaggi importanti: professori, filosofi ecc. Gadi pensava che in questo modo Farid sperimentasse il suo talento di scrittore moltiplicando la sua parola e facendole acquistare potere. Questo era stato l'ultimo messaggio di Farid fino alla notte in cui era andato a trovarlo.
Gadi lo aveva visto entrare silenzioso nella stanza. Una delle lenti dei suoi occhiali era infranta e da un buco rosso sulla fronte colava un rivolo di sangue. Gadi stava per gridare, ma Farid gli aveva segnalato di far silenzio. Voleva che spedisse le sue lettere.
-Non ho fatto in tempo, le ho scritte, ma non le ho spedite. Va, ti prego a prenderle a casa di mia zia a Rafah. Spedisci le mie lettere Gadi, io non lo posso più fare-.
Gadi sapeva che non era stato un sogno, che aveva visto realmente il suo amico ed anche purtroppo sapeva con altrettanta certezza che Farid non c'era più.
Nei mesi successivi attentati e ritorsioni da non capirci più niente. La zia Micol cambiava idea ad ogni attentato. Quando un gruppo di coloni aveva ucciso una famiglia di palestinesi e lei aveva visto nella foto del giornale del mattino quei due bimbi piccoli per terra avvolti nella kefia si era impietosita. Poi alla prima risposta dei fondamentalisti aveva ricominciato ad inveire contro gli arabi che non vogliono la pace. Non solo lei del resto. Sembrava ormai ci fosse una sola opzione: quella del terrore. Difficilmente la gente cercava di capire cosa era successo e perché succedeva. Voleva la sicurezza e la voleva ad ogni costo. Gadi aveva letto che secondo un'inchiesta il 70% della popolazione era favorevole al "pugno duro" contro i palestinesi. Il 70%? Quasi tutti! Ma quando i soldati avevano cominciato a sradicare gli ulivi dei palestinesi, Yossi e i suoi amici si erano incatenati agli alberi per impedirne l'abbattimento e quando l'esercito era arrivato nei villaggi con le ruspe e i tanks per buttare giù le case i pacifisti si erano gettati davanti alle ruspe. I soldati li avevano guardati come se fossero alieni prima di arrestarli e sbatterli sulla jeep, aveva detto Yossi che era abbattuto e cupo. Diceva che aveva paura perfino di parlare con i suoi amici, quelli che gli erano rimasti. Perché non si sa quanto possa resistere l'affetto alla furia distruttrice dell'odio.
L'unico modo per combattere il male è aumentare il bene diceva il nonno. Ma ci sono momenti in cui il bene sembra scomparso dal mondo.
Uri aveva manifestato sotto l'ambasciata italiana dopo l'uccisione di un manifestante, a Genova, da parte della polizia durante il vertice del G8. Lo zio Zac aveva detto:
-Con tutti i guai che abbiamo pensi al G8?-
Uri aveva ribattuto che era tutto un unico discorso, tutto legato. Come dicono i kabalisti, che se muovi una foglia sulla terra c'è una ripercussione fino al cielo.
Gadi faceva un po’ di conti e pensava che questo rimanente 30% fosse quello che il profeta Ezechiele chiamava "il resto d'Israele". Quello che sarebbe sopravvissuto alla distruzione. Quello che sarebbe tornato da Babilonia e risorto dalle proprie ossa. Quello che aveva conservato la propria anima. L'anima si, come diceva il nonno. La speranza invece, la speranza di Gadi era stata stritolata dalle ruspe che avevano buttato giù la casa della zia di Farid a Rafah, dove erano rimaste le sue lettere che nessuno aveva spedito. "Forse", pensava Gadi abbracciando l'ispida Mazal, "verranno tempi migliori. Forse, ma non per me. Per me non verranno mai più."






INGIUSTIZIA INFINITA

"Storture non vengono raddrizzate
Privazioni restano prive…"
Qoélet

Il mondo è pieno di meraviglie. Sotto la superficie il mare brulica d'incanto. Ed esistono sapori, aromi, colori di cui ci si può riempire l'anima annegandola di gioia. Alcune persone hanno visitato molti paesi e assaggiato tanti sapori, respirato la dolcezza dell'aria di città italiane, o ascoltato il rumore del mare su lontane spiagge esotiche. Persone che hanno conosciuto il mondo. Salem aveva conosciuto solo il campo profughi di Beirut privo di fognature, dove la luce è un'opzione e l'acqua corrente non esiste. L'unico respiro che sentiva era quello dei suoi fratelli, sette, che dormivano nella stessa stanza. Quanto ai rumori, ultimamente gli elicotteri israeliani, assordanti e minacciosi, avevano preso a sorvolare il campo.
La famiglia di Salem era arrivata a Beirut alla fine del 1967, dopo la guerra dei sei giorni quando altri 50.000 palestinesi furono costretti ad andarsene. La burocrazia dell'ONU li classificò come "nuovi profughi" per distinguerli da quelli del 1948. Tra le immondizie del campo, sotto un cielo infuocato che sparava dardi come razzi obliqui Salem aveva giocato e trascorso l'infanzia.
Il primo fratello, Feisal, era rimasto a Gaza. Piccolo e malato al momento della partenza, fu affidato alla nonna perché non morisse durante il cammino. Dopo gli accordi di Oslo, quando tutti si erano illusi che venisse la pace, era diventato un poliziotto del nascente stato palestinese. Salem aveva visto questo fratello poche volte. Con i suoi 30 anni, a lui che era il più piccolo, sembrava già un uomo anziano. Feisal si era sposato e i suoi figli, un maschio e una femmina avevano 4 e 6 anni. Era un uomo mite, lo aveva visto calmare l'animo dei fratelli più giovani cercando di infondere loro un po’ di speranza. Credeva nel processo di pace, li rassicurava, sosteneva anche che presto si sarebbero riuniti.
Salem sapeva che i suoi genitori provavano una nostalgia bruciante, ma come potevano provarla anche i fratelli che erano nati in Libano? E' strano come si possa soffrire di nostalgia per luoghi dove non si è mai vissuto, luoghi che sopravvivono ormai solo nella memoria dei genitori che raccontano di un villaggio sepolto sotto gli alberi di una fitta foresta, o i palazzi di una città, ma che pure sono i luoghi dove affondano le tue radici. A volte a Salem sembrava che la vita grama e faticosa del campo fosse sospesa a quell'unica speranza e intrisa di quella nostalgia. Lo sentiva nelle tristi nenie delle donne, nel richiamo del muezzin che al crepuscolo si levava dalla scalcinata moschea dove loro si avviavano scavalcando il rigagnolo putrescente che circondava il campo.
Il mite Feisal fu uno dei primi ad essere ucciso durante quella seconda Intifada. Fu ucciso in un agguato a freddo assieme ad altri sette colleghi. I soldati israeliani dissero che, pardon, si erano sbagliati. L'agguato avrebbero voluto farlo a personaggi più importanti di loro. Si sbagliarono una seconda volta quando in un'incursione improvvisa, uccisero la piccola Leila mentre mangiava la minestrina. Quanto a suo fratello Momi non ce ne fu bisogno: diventò autistico per la paura e in breve morì da solo.
Quel terrore incombente, quella sensazione di morire come topi in trappola, la provarono anche loro quando i soldati israeliani sconfinarono nel Libano "per dare una lezione ai palestinesi dei campi profughi".
Tareq, un altro fratello di Salem, studiava all'estero. Quando arrivava al campo era sereno e carico di regali per tutti, portava con se molti libri. Man mano che passavano i giorni però leggeva sempre meno, il suo umore s'incupiva, il sorriso spariva e una piccola ruga gli si disegnava in mezzo alla fronte. Tareq sosteneva che se la vita al campo non fosse stata così dura, nemmeno la nostalgia sarebbe stata così intensa. "Ogni volta che parto quasi me ne dimentico" diceva "La mia vita finisce per prendere il sopravvento, ma appena torno al campo tutto quello che sembrava importante prima si congela. Affetti, ambizioni, progetti, tutto rimane sospeso e mi sembra che conti solo la lotta per il ritorno".
Tareq era riuscito a passare i blocchi per andare a Gerusalemme al funerale di Feisal Husseini. Raccontò di un fiume umano che abbracciava la bara avvolta nella bandiera palestinese e la bara oscillava per l'abbraccio disperato della folla commossa e dolente.
Giorno dopo giorno arrivavano notizie di nuove uccisioni. Continuavano senza posa gli agguati a dirigenti palestinesi condannati a morte senza processo dai militari israeliani di Sharon. Bambini colpiti alla testa dai cecchini per una pietra lanciata, per partecipare a un funerale. I palazzi di Gaza erano un ricamo di cannonate, i campi coltivati un incendio, le case vicine agli insediamenti (contrari agli accordi di Oslo) rase al suolo. E si parlava di morti, non di feriti, ma mutilati e disabili, tantissimi bambini, erano già un esercito. A Gaza perfino il mare era disperato e a Ramallah piangevano le pietre. Il padre di Salem s'incupiva e la madre pregava, ma i fratelli più giovani serravano le mascelle.
Poi c'era stato l'assassinio "mirato" di Ali Abu Mustafah, un dirigente riconosciuto e amato dal popolo palestinese. Tareq si trovava al campo ed era quasi impazzito dalla rabbia e dal dolore. Salem aveva contato le vene delle sue braccia levate al cielo coi pugni serrati.
Era il più piccolo dei fratelli e in lui si concentravano sette nodi di frustrazione. Aveva macinato la morte del pacifico Feisal e dei suoi bambini, l'amarezza di Tareq, la rabbia degli altri fratelli. Salem aveva 17 anni ma non era mai andato a una festa, non possedeva un apparecchio per sentire la musica e men che meno un telefonino. I suoi occhi neri e accesi scrutavano l'orizzonte e ogni giorno di più il suo cuore si gonfiava di odio finché fu sul punto di scoppiare. La freschezza dei suoi anni, la voglia di vivere che gli gridava dentro si trasformavano in una pietra che ogni giorno di più premeva sul suo cuore. Una volta aveva creduto alle promesse di Feisal, ma ora lui era morto. La vita se la configurava ormai come un oscuro Tunnel con al fondo la morte.
Un giorno aveva avuto "l'illuminazione". Un gruppo di uomini si assiepava attorno a una delle poche televisioni del campo. Si fece largo, nel video l'immagine di un giovane che dichiarava al mondo intero le ragioni per cui si sarebbe fatto saltare in aria in un posto affollato. Salem guardava l'espressione calma del giovane, ascoltava le sue parole come ipnotizzato. Ecco uno che sapeva cosa fare, che agiva, che non si limitava a morire di disperazione. Ora in fondo al suo tunnel si erano accesi bagliori e il fondo buio era esploso di luci. Non ci stette a pensare. Ne aveva abbastanza di maledizioni, di pugni chiusi e mascelle serrate, di litanie e di rabbia repressa.
Era stato facile mettersi in contatto con il gruppo giusto e in poco tempo Salem, il più giovane dei fratelli, trasformato il proprio corpo che non aveva ancora vissuto, né provata un'emozione dolce, in un'arma micidiale, andava verso l'odiato nemico.
A Tel Aviv passeggiava sulla strada principale indeciso. Era tutto molto diverso dal campo. La sua rabbia snebbiava un po’ per far posto alla curiosità. Guardava il mondo che stava per esplodere come se fosse affacciato a una finestra su una nuvola. Sul marciapiede davanti a un pub sostava un gruppo di giovani ed ecco che una ragazza si era girata a guardarlo. Salem si spaventò, ma lei, senza smettere di guardarlo, gli sorrise. Il ragazzo capì che lo trovava attraente e una lacrima cominciò a pungergli gli occhi per uscire. Se solo avesse avuto ragione suo fratello Feisal! Se solo ci fosse stata davvero la pace! Adesso avrebbe potuto ricambiare il sorriso di quella ragazza e non essere lì, imbottito di esplosivo in quella trappola di morte.
Nei pochi infiniti secondi successivi rivide la sua breve vita passata. Vide che era stata un susseguirsi di difficoltà e amarezza priva di speranza e di scelta. No, non poteva ricambiare sorrisi. Gli era stato tolto, senza misericordia, anche il futuro.

Shlomo gettò nel cestino l'ultimo boccone del panino che aveva sbocconcellato. Da quando Igal non c'era più non mangiava volentieri a casa. Gli metteva tristezza e gli faceva sentire più forte la sua solitudine. C'era stato un momento in cui la vita aveva cominciato a sorridergli. Con sua moglie Liat, ormai esauriti gli aspri conflitti di quando erano ragazzi, le cose andavano bene. La consuetudine a vivere assieme, la tolleranza che in genere si acquista con gli anni, avevano fatto in modo che nella loro vita si stabilisse un equilibrio che la rendeva serena, ma soprattutto c'era Igal. Shlomo non riusciva a dimenticare la gioia di averlo stretto tra le braccia, di averlo sostenuto nei primi passi o di aver riso delle sue smorfie. Sognava per lui una vita splendida. Quando guardava questo figlio, perdonava il cielo di tutte le sofferenze che aveva patito. Nel suo sorriso era la vita stessa che sorrideva.
Shlomo era nato per tenere vivo il ricordo, o per addolcirlo, di un altro bambino, un fratello che non aveva conosciuto ucciso dai nazisti in un campo di sterminio. Lo stesso campo dove avevano marchiato un numero sul braccio di sua madre che lei nascondeva con un cerotto. Da bambino non osava neppure gettare uno sguardo a quel cerotto, come se sotto ci fosse la bocca risucchiante dell'inferno. Reduce dai campi della morte sua madre aveva trascinato la sua angoscia in Israele, allora appena uscita dalla guerra con gli arabi e lì aveva sposato un altro ex deportato, suo padre. Entrambi avevano perso tutto: la famiglia, la casa, i parenti, avevano provato insieme a vivere ancora. Suo padre diceva che in Israele gli ebrei sarebbero stati finalmente al sicuro. Che l'Olocausto non sarebbe stato possibile se tutti gli ebrei avessero potuto viverci. Shlomo sapeva ormai che questo non era stato mai vero. Aveva 50 anni e faceva fatica a ricordare un periodo lungo in cui in Israele non ci fosse stata una guerra, un attentato, un conflitto qualsiasi. Malgrado ciò amava il paese dove era nato e non avrebbe voluto essere in nessun' altro posto al mondo.
La sua infanzia era stata difficile. Come succede a molte persone troppo profondamente ferite, sua madre aveva cominciato a manifestare comportamenti strani, maniacali e perfino crudeli. Lo chiamava Avremel e lui intuiva che questo Avremel doveva essere stato il figlio che aveva perso. Spesso parlava da sola o si rivolgeva a lui come se non fosse il suo bambino, ma un'altra persona, pregandolo e supplicandolo oppure minacciandolo. Altre volte gli si rivolgeva in una lingua sconosciuta e Shlomo intuiva il senso dei discorsi dal tono. Per contro suo padre era diventato sempre più taciturno. Negli ultimi tempi della sua vita praticamente non parlava più. Non sapeva mai cosa pensasse perché la sua espressione era diventata impenetrabile. Era come se le loro ferite si fossero infettate e con il tempo l'anima fosse diventata una piaga. Shlomo non aveva mai potuto confidare una paura, un dubbio, né fare una domanda. Era stato sempre solo e tutta l'infanzia l'aveva trascorsa sotto la scala dove c'era una specie di nicchia, il suo rifugio, e dove rimaneva in silenzio a pensare. In quei momenti gli sembrava che i suoi genitori fossero cattivi, ma poi aveva capito o intuito quello che avevano sofferto e potuto perdonare loro di averlo messo al mondo senza mai proteggerlo. Con tutto ciò le ferite erano rimaste e quando si era sposato ed era nato suo figlio aveva giurato a se stesso che gli sarebbe stato sempre vicino. Per Shlomo, quando Igal era venuto al mondo una benedizione era scesa sulla terra. Neppure il Messia in persona avrebbe potuto portargli tanta gioia. Chiuse gli occhi e per un attimo gli parve di vedere il volto luminoso di Liat che teneva per mano il bambino.
Poi lo aveva visto partire per il servizio di leva. Mai a Shlomo sarebbe venuto in mente che Igal potesse restare ucciso. Qualcosa al di là della ragione gli faceva pensare il ragazzo indistruttibile come se non fosse stato un semplice essere umano. Igal non durò nemmeno due mesi. Un miliziano palestinese scaricò il kalashincov su di lui mentre era in un bar frequentato da militari e lo uccise assieme ad altri tre commilitoni. La sua morte sconvolse completamente non solo la vita di Shlomo, ma anche l'equilibrio conquistato in tanti anni di frequentazione, con Liat. Invece di avvicinarli il dolore li aveva resi nemici, non furono più capaci di perdonarsi nulla era come se addizionato diventasse troppo grande. Così lei se n'era andata, aveva portato altrove la propria pena per tentare di sopravvivere.
Shlomo si passò una mano sulla faccia come se avesse voluto scacciare la tristezza o il rimpianto. Si abbottonò la giacca della divisa e si avviò sul marciapiede affollato. Ad un tratto il cuore quasi gli si fermò. Tra la nebbia delle lacrime aveva visto ondeggiare tra la folla il passo elastico di Igal. Un attimo, poi sorrise di se stesso e guardò con disincanto il marciapiede. Ed ecco davanti a lui la bella testa piena di riccioli del suo amatissimo ragazzo. Senza chiedersi più nulla si affrettò per raggiungerlo. Quasi urtò un gruppo di giovani che sostava davanti ad un pub aspettandone l'apertura. Gli scoppiava il cuore per l'emozione e nel tentativo di fermarlo tese il braccio verso il giovane che si voltò, vide il poliziotto che gli intimava di fermarsi. Il povero padre potè vedere da vicino i suoi occhi disperati e brucianti, pieni di paura. Fu l'ultima cosa che vide prima che si aprissero le porte dell'inferno. Salem mise in atto il dispositivo di morte. Vi fu uno scoppio tremendo. Shlomo fu investito da qualcosa di pesante che lo scaraventò a terra. Era la testa del ragazzo che l'esplosione gli aveva staccato dal collo di netto, era morto lui solo. Il poliziotto fu soccorso, era ricoperto di sangue che non gli apparteneva. Nei suoi occhi c'era un dolore sconfinato. Per tutto il resto della vita avrebbe ricordato quel viso. Era Ygal, era Salem, che importa? Era la vittima sacrificale dell'odio.
Nel suo letto d'ospedale gli parve di essere trasportato lungo la corrente di un fiume di dolore.



VITE SPEZZATE




Jamila, madre di un “terrorista”


Io credo che cominciò tutto a quel posto di blocco. Fino a quel momento Said era stato un ragazzino buono e gentile. Amava gli uccelli. A volte trovava un piccione con un’ala spezzata, o un nidiaceo caduto da un nido. Lui se ne prendeva cura e spesso per casa svolazzavano i suoi protetti che faticavano a lasciarlo. Mi manca quel frullare d’ali che accompagnava il ritorno di Said da scuola o che denunciava la sua presenza.
Si era formata come al solito una lunghissima fila. Boccheggiavamo per il caldo soffocante. I soldati del posto di blocco erano molto giovani, forse militari di leva. Quando fu il nostro turno, dopo ore di attesa, uno di quei soldati insultò mio marito che non reagì per non creare problemi, allora il giovane lo afferrò per la camicia e cominciò a sballottolarlo. Credo che fu in quel momento che suo padre veniva umiliato da un ragazzo di 20 anni che in lui scattò qualcosa. Nei giorni successivi accadde un altro episodio che nutrì il suo odio. I soldati avevano attaccato il campo profughi di Khan Yunis e per uscirne indenni avevano legato un uomo davanti alla jeep come scudo umano. Quell’uomo era un fratello di mio marito. Sentivo che il mio bambino si andava aprendo ad una rabbia, ad un’angoscia troppo grandi per lui, troppo grandi per essere sopportate. L’insegnante mi confermò che i suoi temi , ma soprattutto i suoi disegni esprimevano un disagio enorme.
“E’ la situazione di tutti i bambini però” mi disse. “I bambini hanno paura, perdono la voglia di giocare perché pensano che possono morire da un momento all’altro. Si chiudono in se stessi, ma i più grandi, come Said pensano che debbano essere loro a salvare la situazione perché gli adulti non sono più capaci di farlo. E’ questa la loro grande tragedia: non hanno più fiducia negli adulti, li sentono fragili ed esposti e son convinti che essi non possano proteggerli.”
Said dovette assistere a molte altre scene di maltrattamenti ai posti di blocco. Una volta c’era un vecchio con tutta la sua famiglia. Il giovane soldato lo schiaffeggiò davanti a tutti. Il vecchio piangeva silenziosamente. Tutti noi che assistevamo alla scena fummo attraversati da brividi di indignazione e di vergogna. Ricordo che allora Said mi guardò con una domanda negli occhi smarriti che voleva dire “Dobbiamo permettere loro tutto questo?” Qualche giorno dopo tornò da scuola con una ferita sulla fronte, capii che aveva cominciato a tirare pietre contro i soldati.
Non dimenticherò mai quel giorno che tornò a casa sconvolto. Tremava come una foglia e non fu facile farlo parlare. Raccontò che stava tirando pietre sulla macchina di un colono, uno di quelli che si sono costruiti la casa con giardino e piscina sulla nostra terra togliendoci anche l’acqua. Era con un altro ragazzino più piccolo di lui, Hamhed di 11 anni. L’uomo li aveva rincorsi. Said lo aveva visto raccogliere da terra una grossa pietra. Lui si era nascosto, ma Hamhed che era più piccolo non ce l’aveva fatta. L’uomo lo aveva agguantato. Mio figlio tremava e gli scendevano le lacrime mentre raccontava “Quell’uomo lo ha colpito molte volte con la pietra, dal mio nascondiglio lo sentivo urlare, ma ho avuto troppa paura per fare qualcosa, lo ha colpito e colpito finché non si è mosso più, e io non ho fatto niente mamma…” Said era seduto sul divano e la sua faccia rigata di lacrime era protesa verso di me che mi sentii male dalla pena, avvertivo che il cuore di mio figlio era serrato dalla mano gelida del rimorso. Non avrebbe potuto fare niente, ma questo non lo calmava.
La sera al telegiornale ascoltai allibita la notizia data in modo assolutamente stravolto. Lo speaker diceva che il colono aveva rincorso il bambino che era inciampato e caduto sbattendo la testa su una pietra…Come si può fare una cosa del genere e rimanere un essere umano? Quel colono se la cavò con pochi mesi e il pagamento di un ammenda. Tanto poco vale la vita dei nostri figli.
Ecco io credo che Said sia andato in pezzi dentro di se prima ancora che il suo corpo si sfracellasse. So che saltando in aria ha provocato la morte di molte persone. Ho chiesto perdono alle madri israeliane per la morte dei loro figli provocata dal corpo dilaniato del mio ragazzo, ma credo che debba essere riconosciuto anche il silenzioso delitto che ha spaccato il cuore di mio figlio, facendogli prendere, lui che non era un violento, una decisione così atroce.


Accorato appello di Zaira attivista palestinese per i diritti umani
Alle compagne israeliane

Come è morto mio marito, lo sapete. I militari di guardia all’insediamento ebraico di Netzarim gli hanno sparato addosso mentre tornava a casa dal lavoro. Dall’inizio dell' Intifada l’esercito ha tagliato in due Gaza all’altezza di Netzarim, Ma anche quando non c’è il blocco i militari sparano contro le auto e camion palestinesi in transito. Per passare dal sud al nord di Gaza i palestinesi della costa devono necessariamente passare davanti a Netzarim e perciò nelle giornate lavorative ci sono sempre molti morti e feriti. Le gerarchie militari hanno detto che è stata colpa della stanchezza dei soldati da mesi impiegati nei territori occupati. Stanchezza e “sindrome libanese “ che li porterebbe a vedere in ogni palestinese un potenziale attentatore. Nonostante le trattative, gli incontri e l’inutile mediazione americana il blocco delle zone palestinesi da parte dell’esercito continua senza pietà. Ieri l’esercito aiutato dai coloni ha sbarrato la strada da Gerusalemme a Gush Etzion per non farvi passare le auto palestinesi, infatti quella strada è riservata esclusivamente ai coloni. Gaza è piena di posti di blocco e per fare un percorso di 20 minuti ci vogliono ore, ma i coloni non hanno problemi. Per loro i posti di blocco non esistono. Si resta senza parole davanti alle macerie degli edifici palestinesi distrutti perché vicini alla colonia ebraica di Netzarim. L’esercito ha anche definitivamente chiuso lo svincolo per Khan Yunis e gli automobilisti palestinesi non possono più percorrere la strada lungo il mare I soldati sparano su tutto ciò che si muove. Hanno puntato i fucili perfino sui funzionari dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni unite che dal 1950 assicura ai profughi palestinesi assistenza sanitaria e istruzione scolastica.
Noi vogliamo la pace, ma quale pace può esserci in uno stato assediato dove è proibito muoversi, senza risorse, perché non abbiamo il pieno controllo della nostra acqua, costellato e diviso da ceck point, senza possibilità di sviluppo economico autonomo e con i coloni dappertutto. E non c’è soltanto la violenza clamorosa dei bombardamenti, degli assassini politici, dei carri armati che sparano sui bambini. La cosa più triste che ci umilia e ci esaurisce, è la brutalità del nostro quotidiano fatto di acqua che manca, di alberi sradicati, di case requisite o demolite, di strade interrotte:..i ragazzi rifiutano con tutte le loro forze un futuro di umiliazione come è stata la vita dei loro padri.
Noi genitori palestinesi siamo stati dipinti come mostri. Come se non bastasse averci tolto ogni sicurezza e di aver spogliato il nostro quotidiano di ogni piccola gioia. Ci calunniano, ci gettano addosso fango nel tentativo di disumanizzarci. Hanno detto che mandiamo i nostri figli a morire, che noi madri diamo loro le pietre da lanciare, che i padri si fanno scudo dei bambini. Noi non siamo mostri. Amiamo i nostri figli come voi israeliani amate i vostri e siamo esseri umani come voi. Si potrebbe chiederlo al padre di Mariam la bimba di 18 mesi uccisa a Nablus dal fuoco dei soldati che hanno sparato sulla macchina che la portava all’ospedale se si è nascosto dietro al corpo della figlia, oppure alla madre della giovane Aijri, che è stata uccisa mentre stendeva i panni in terrazza, se le ha dato pietre da tirare ai soldati.
Da molti anni noi donne palestinesi abbiamo avviato questo dialogo con voi costruendo nel tempo la fiducia e l’amicizia che ci permette di aprirci le une alle altre e di parlare di pace senza ipocrisie e menzogne. Ma ora ci sentiamo abbandonate e percepiamo un muro di isolamento che cresce intorno a noi. Sappiamo quanto è difficile per voi sostenerci, ma proprio in questo momento che si fa disperato, abbiamo bisogno che le nostre voci diventino una sola voce.



Shulamit, studentessa israeliana

Avevo conosciuto Fad frequentando un centro di documentazione, meta di studenti arabi e israeliani. Ora mio pento di non avergli detto mai quanto mi piaceva. Fad era diverso dagli altri amici che avevo. Non pretendeva mai niente, era gentile con tutti. A volte mi chiedevo come l’avrebbero presa i miei se avessi detto loro che ero innamorata di un ragazzo arabo. Proprio a lui non avevo detto nulla: lasciavo che crescesse la nostra amicizia, l’intesa che ci faceva incontrare tutti i giorni, pensavo di avere tanto tempo…Una volta c’era stato un attentato e lui mi aveva telefonato a casa per sapere se ero già arrivata, se ero al sicuro. Ricordo che mia sorella lo aveva trovato comico, come se gli arabi potessero stare solo dalla parte dei terroristi. La mattina che ci siamo salutati ero un po’ preoccupata, ma non avrei mai creduto che quella era l’ultima volta che lo vedevo. Peccato, perché almeno avrei potuto cercare di imprimere nella mia mente i tratti del suo viso che ora mi sfuggono, anche se non potrò mai dimenticarlo. Gli avevo detto
-Stai attento- ma lui mi aveva rassicurata
-E’ solo una manifestazione, Shula-
Il risultato lo sapete. La polizia sparò sulla prima manifestazione che gli arabi israeliani facevano a sostegno dei palestinesi dei territori occupati. Sparò e uccise in un solo colpo 13 persone. Una di quelle 13 persone era Fad.

Hoda giovane sposa palestinese

Mi svegliai nel cuore della notte completamente coperta di sudore. Il dolore che si era fatto insopportabile. Anche mio marito si svegliò. Gli dissi di aiutarmi perché era venuto il momento. Aspettavo il mio primo figlio e non nascondo che avevo paura. Ci vestimmo in fretta e salimmo in macchina per correre in ospedale. Al posto di blocco ci fermarono. Mio marito spiegò concitatamente al soldato la nostra situazione chiedendogli di farci passare perché non c’era tempo da perdere. Io mi tenevo la pancia e mormoravo “Sbrigati, sbrigati” stavo troppo male per rendermi conto subito di cosa stava succedendo, ma lui era sceso dalla macchina e non si decideva a salire per ripartire, lo vedevo discutere coi soldati, dai suoi gesti nervosi capivo che c’erano problemi. Non ci fecero passare, intanto le doglie stavano aumentando, il sedile della macchina era tutto bagnato perché si erano rotte le acque. Ero disperata. Cominciai ad urlare, mio marito era in confusione, non sapeva cosa fare. Ora so che non sono stata la sola, ma che almeno una trentina di donne sono state costrette come me, a partorire in macchina come un animale, senza aiuto rischiando di morire. Dopo molto tempo si decisero a farci passare. La macchina era tutta intrisa di sangue, io mi sentivo mancare e stringevo disperatamente mio figlio con la paura di perdere conoscenza. Non sapevo ancora che stavo stringendo un cadavere, io stessa ero in pericolo di vita, arrivai all’ospedale in schok emorragico. Sono giovane, posso avere altri figli, se Dio vorrà, ma questa ferita non si chiuderà mai.

Iris, soldatessa israeliana disertrice


Eravamo partiti di mattina presto. Era ancora buio. C’era un posto di blocco di poliziotti palestinesi, tre o quattro persone. La jeep davanti alla mia sparò una raffica e li uccise tutti. Poi il villaggio fu circondato e cominciò il rastrellamento porta per porta. La gente nelle case dormiva ancora. Vidi le persone che erano state arrestate trascinate via in malo modo. Poi qualcuno cominciò a sparare, rispondemmo al fuoco. Mi sembrò che la nostra reazione fosse eccessiva rispetto alla debole resistenza oppostaci. I miei colleghi continuarono a sparare furiosamente anche dopo aver colpito i pochi che avevano cercato di resistere. Proiettili entravano nelle case dove si sentivano urla e pianti di bambini. Pensai con raccapriccio che forse ne avevamo colpito qualcuno. Per terra erano rimaste tre persone ferite. Due uomini e un ragazzo. - Dovremmo chiamare un’autoambulanza-
dissi a un graduato. Costui mi guardò come se fossi la scema del villaggio e scoppiò a ridere.
-Certo- disse - ora la chiamiamo subito- e si avvicinò a quei tre che stavano per terra sanguinanti. Il ragazzo specialmente non riesco a togliermelo dalla mente, avrà avuto 15 anni. Il graduato tirò fuori la pistola e sparò freddamente su tutti e tre .
Mi venne una crisi isterica e mi mandarono in licenza. Non tornai da quella licenza e non finii il servizio militare. Hanno cercato di convincermi che era meglio farmi passare per malata, ma io ci ho tenuto ad affermare che disertavo. Anche se questo mi è costato la prigione.


Fatma madre palestinese

Da sei mesi non ho più notizie di mia figlia. Ha minacciato un soldato con un coltellino. So che non doveva fare quello che ha fatto, ma è solo una bambina, ha 13 anni. In un altro paese non sarebbe stata nemmeno in prigione. Invece le prigioni israeliane sono piene dei nostri bambini. Non ci facciamo illusioni, sappiamo che vengono maltrattati, perché non me la fanno vedere? Non so più nulla di lei, non so nemmeno se è viva .


Yael, abitante di Mea Shearim

E’ un anno che ho smesso di pregare. Per tutta la vita la mia giornata era cominciata con il lavaggio rituale delle mani, la netylat jadaim. E scandita dalla tefillah del mattino, quella del pomeriggio e della sera. Non mi ero mai messa a letto senza prima leggere la kiriat shemah e ad ogni risveglio avevo mormorato “Ti ringrazio per avermi reso l’anima che avevo affidato nelle Tue mani”.
Un giorno mentre versavo l’acqua dalla brocca sulla mano destra ho sentito qualcosa di falso in quel gesto e non ho potuto terminarlo.
Una volta, quando ero piccola, mi è stato detto che ogni ebreo è responsabile delle azioni degli altri ebrei, ho sempre sentito con forza questa unità. Come se il nostro popolo fosse un solo corpo. Era per questa ragione che non avrei mai parlato male di un correligionario a un estraneo. A Pesac, quando leggevo l'Aggadah, pensavo che milioni di altri ebrei in tutto il mondo la stavano leggendo nello stesso momento, questo mi dava una forte emozione e non mi faceva mai sentire sola. Il più delle volte passavo lo shabat da sola, ma ero serena. Sentivo la pace del giorno santo scendere sul mondo e nelle azioni che compivo l’intero popolo ebraico era con me. Non ho mai desiderato la ricchezza, mi piace la gente, mi piace il nostro paese in cui convive gente così diversa. Ho sempre pensato che c’è un forte significato in questo, nel fatto che il popolo ebraico così unito da secoli sia formato da gruppi diversi per cultura, rituale e perfino etnia. Come se ci fosse stata data la possibilità di dimostrare che la diversità è una ricchezza. Pensavo con orgoglio che nella Torah si parla di amore per il prossimo intendendo questo prossimo non soltanto il popolo ebraico, ma tutto il mondo e mi piaceva che nell’Aggadah ci fosse scritto che il Signore rimproverava gli angeli esultanti per la salvezza degli ebrei, mentre gli egiziani affogavano nel mar Rosso, perché anche gli egiziani sono figli di Dio, ancorchè nemici.
Dopo l’episodio della netylat jadaim , una sera all’entrata di shabat avevo appena acceso le candele quando un colpo di vento entrato dalla finestra le ha spente entrambe. Una casualità, però dopo cena mentre leggevo “il Signore benedice il suo popolo con la pace” mi sono sentita veramente strana, ed ho avvertita tutta l’incongruenza della situazione. Forse il Signore non ci benedice più perché abbiamo dimenticato che la pace bisogna guadagnarsela, noi invece la vogliamo e basta e senza dare nulla, adesso la chiamiamo “sicurezza” ed è diventata una parola sporca, ambigua. Sicurezza significa che giustifichiamo l’alzata dei muri, lo spianamento di km e km di case altrui e di campi coltivati , che importa se questo significa fame e disperazione per altra gente! Sicurezza significa che plaudiamo alla repressione violenta, agli omicidi, a togliere ad altre creature i mezzi di sussistenza, cosa che equivale ancora ad uccidere, come è scritto nella nostra Torah. E sempre in nome della sicurezza i carri armati sono entrati sparando nella città palestinese di Jenin e hanno ucciso due bambine che uscivano da scuola. Ho visto in televisione una di queste bambine all’obitorio. Aveva un visetto grazioso, una cascata di riccioli attorno alla testa, sembrava addormentata.
Poi è arrivata Rosh ha shanah. Eravamo tutti intorno al tavolo, parenti e amici, per festeggiare il capodanno. Sul tavolo c’erano gli alimenti di rito per ognuno dei quali bisogna recitare una formula e quando si è arrivati a recitare “Che finiscano coloro che ci odiano” mi ha attraversato un brivido. Come posso dire questo? Forse i nostri nemici hanno ragione ad odiarci ed io non pregherò contro di loro.


Iman, figlia di contadini palestinesi

I coloni che vivono di fronte ci avevano sempre tirato le pietre, tanto che dovemmo costruire una tettoia per difenderci, ma una notte vennero nel nostro campo e lo incendiarono. Il bagliore delle fiamme ci svegliò e uscimmo fuori a vedere. Il nonno andò a prendere dell’acqua per spegnere, ma i coloni glielo impedirono. Erano in molti. I miei fratellini strillavano come matti, mio padre cercò di reagire e uno di quelli lo picchiò e gli fece uscire sangue dal naso. Il campo era tutto quello che avevamo per vivere, ci dissero:
-Ringraziate il cielo che non vi hanno ancora buttato giù la casa!-.
Due giorni prima quelli stessi coloni avevano sparato su una macchina ferendo due persone, ma con chi dovevamo lamentarci? Prima di loro erano stati i soldati a sparare su un taxi uccidendo una donna e un bambino. Siamo tra due fuochi, da una parte i coloni e dall’altra i soldati.


Anat, madre israeliana

Chi mai avrebbe pensato che stavo vedendo mia figlia per l’ultima volta quando è uscita semplicemente per andare a ballare? Ho sperato fino all’ultimo che non fosse nell’elenco dei morti. Aveva 18 anni, di lei non si è trovato niente. E' stata identificata dagli oggetti trovati. La borsa, un pezzo di vestito…non riuscivo a rassegnarmi, per giorni ho visto il mondo coperto da un velo di nebbia traverso le mie lacrime. Ho altri due figli, non voglio che facciano la stessa fine. Voglio vederli diventare adulti, voglio abbracciare i loro figli. Abbiamo bisogno di pace, possiamo rinunciare a un po’ di terra, ma alla pace non possiamo rinunciare.
Dopo l’attentato c’è stata la ritorsione ordinata dal nostro governo che ha portato altri morti. E come ci aspettavamo tutti, un nuovo attentato. Questa volta è stata una mia nipotina ad essere colpita. Shalev ha nove anni, non ha più le gambe, ha perso ogni autonomia, è come una bambola. Quando ho visitato il centro pediatrico per bambini disabili, a Gaza, ne ho visti tanti di bambini ridotti come Shalev e allora mi sono chiesta, ma che cosa stiamo facendo? Che logica c’è in tutta questa violenza? A chi serve a che serve? Non voglio fare analisi politiche non me ne sono mai occupata, ma trovo disumano distruggerci a questo modo per permettere a un pugno di fanatici di mantenere le loro villette e le loro colonie in territorio palestinese. la nostra vita è diventata una crisi permanente e tutto per l’egoismo di una piccola parte del paese e per l’attaccamento al potere di un gruppo di politici violenti e corrotti.
Spesso sento dire dalla gente che ha paura e vuole essere protetta “ ci vuole sicurezza, ci vogliono muri, ci vuole decisione “. No, vi sbagliate, ci vuole soltanto amore. Ci vuole amore per la vita, per se stessi, per i propri figli e il proprio prossimo. Perché in questa logica criminale di vendetta e ritorsione non c’è amore e rispetto per nessuno, non c’è ne nemmeno per coloro che dice di voler difendere. Non riesco ad essere solidale con i coloni, per me è più facile e diretto essere solidale con le altre madri che hanno sofferto e soffrono come me, siano esse israeliane o palestinesi. So che se continuerà questa assurda violenza che alimenta un odio sempre rinnovato, noi non distruggeremo soltanto i palestinesi, ma saremo i primi artefici della nostra stessa catastrofe.

Leila studentessa palestinese

Quando è tornata a casa mia sorella Afef, con il bambino sulle braccia, inerte, era una maschera di dolore. Era rimasta tutto il giorno al posto di blocco, le avevano detto che non si passava. Ma lei che poteva fare? Il piccolo aveva bisogno di cure urgenti, così era rimasta col bambino sofferente sulle braccia davanti al blocco sperando che i soldati si impietosissero. Ma quelli avevano ordini precisi, c’era stato un attentato e non facevano passare nessuno. Due, tre volte Afef aveva tentato di passare. Era stata derisa e perfino percossa.
Le siamo andati incontro togliendole il cadavere del bambino dalle braccia. Lei era assente, quasi cieca perché i suoi occhi guardavano lontano, in un punto indefinito, ma presumibilmente posto in alto.
Durante la notte ci siamo svegliati tutti perché abbiamo sentito urla e rumori. Siamo usciti fuori a vedere. Nella notte limpida abbiamo visto avanzare i tanks israeliani e dietro le ruspe. Avanzavano verso le nostre case per buttarle giù. Eravamo così esterrefatti da tanta prepotenza che non siamo riusciti neppure a protestare. Mentre facevano il loro lavoro mi ha colpito, incastonata in un cielo incredibilmente azzurro, la lama di luce della luna. Hanno buttato giù centinaia di case, distrutto tutti i campi, gli ulivi e gli alberi da frutta che c’erano nei dintorni. Questo per fare una “fascia di sicurezza” giacché le nostre case avevano il torto di sorgere troppo vicine agli insediamenti, ma in realtà sono le colonie ebraiche ad essere state costruite in mezzo alle nostre case. Ci hanno anche preso in giro.
-Non avevate il permesso regolare di costruire-
Sicché gli insediamenti costruiti sull’ultimo pezzetto di terra che ci è rimasto, in barba alle risoluzioni dell’Onu e alle leggi internazionali avrebbero un permesso legale e regolare?
Siamo tornati tutti a Ramallah, a casa dei nostri genitori. Siamo in tanti, in troppi si sta molto stretti. Io volevo andare all’università. Avrei voluto, ma l’esercito israeliano ha distrutto una parte della strada che collega l’università con Ramallah, ha fatto questo lavoro sempre di notte (amano farci sorprese) scavando trincee e distruggendo almeno 4oo metri di asfalto. Era l’unica strada di collegamento tra Ramallah e il villaggio di Birzet, sede dell’università, e l’unica strada di collegamento tra Ramallah e altri 33 villaggi, con una popolazione di più di 65.ooo persone la cui normale vita quotidiana è stata interrotta. Auto, ambulanze e mezzi di rifornimento provenienti da Birzet e dai villaggi vicini non possono passare da una parte all’altra degli sbarramenti e delle trincee.
L’8 marzo, durante la manifestazione, abbiamo cercato di rimuovere le barriere, ma i soldati ci hanno sparato addosso.



Lea, attivista di Peace Now e avvocato

Sono rimasta allibita quando ho saputo che Sami era stato ucciso a Tulkarem dai soldati mentre a bordo della sua macchina si stava recando a lavorare al suo studio dentistico. Allibita e addolorata. Cosa c’entra Sami con i terroristi se pure vogliamo far finta che sia giusto ucciderli senza processo? Conoscevo bene quest’uomo dagli inizi della nostra organizzazione Peace now, con la quale Sami aveva rapporti di amicizia. Abbiamo parlato insieme migliaia di volte e mi è rimasto impresso il suo sorriso aperto e umano.
All’inizio ho pensato che era stato un errore, ma molte cose mi hanno confermato che era proprio lui nel mirino. Che disegno c’è dietro l’uccisione di persone buone disposte al dialogo e sprovviste di fanatismo violento? Ho sostenuto che le uccisioni a freddo di militanti palestinesi violano la legge israeliana e la convenzione di Ginevra. Su indicazione della moglie di Sami, come avvocato, mi sono rivolta alla corte suprema israeliana chiedendole di fermare queste esecuzioni. Anche la stessa organizzazione Peace now ha protestato energicamente con Barak, ma temo senza nessun risultato.



Jasmin orfana palestinese
Mio padre non è tornato a casa quella sera. Abbiamo recuperato il suo corpo all’ospedale, dove inutilmente la mezza luna rossa lo aveva portato, dopo averlo raccolto di là della rete di confine dove lo avevano gettato gli israeliani. Hanno detto che aveva attaccato i soldati, da solo e disarmato. Mio padre non era pazzo. Aveva solo 37 anni ed era un uomo intelligente. Abbiamo passato momenti terribili. Ora la nostra vita sarà ancora più dura e difficile. Io ho sedici anni e sono la prima di 4 fratelli di cui il più piccolo ha sei anni. Mio padre era il sostegno della nostra famiglia. Prima lavorava in Israele, ma poi gli hanno impedito di passare ed ha perso il lavoro, lavorava come giornaliero, cercando ogni giorno. Probabilmente quando lo hanno ucciso stava cercando di aggirare il posto di blocco per poter tornare a casa. E’ un delitto pretendere di tornare a casa?
I miei zii erano andati in Giordania a trovare dei parenti e al ritorno gli israeliani gli hanno impedito di rientrare dichiarandoli profughi. Dove mai si è visto che basta allontanarsi da casa per rischiare di non potervi più far ritorno? Ma la cosa più squallida di tutte è il modo come mio padre è stato ritrovato. I soldati gli hanno legato le mani, lo hanno ucciso e poi l’hanno gettato di là della rete, dalla parte di Gaza, come si getta un sacco di stracci vecchi in un secchio di rifiuti.



Riflessione di Ruth, pacifista israeliana


Cominciammo a sentirci a disagio con tutti quei morti. Non avevamo educato e cresciuto dei figli per farli uccidere in guerra. Avevamo trasmesso loro dei principi di democrazia, di solidarietà e poi li vedevamo trasformarsi in uccisori o uccisi. Cominciammo la nostra silenziosa e tenace protesta. Eravamo poche, restavamo ferme in mezzo alla strada con i nostri cartelli e la gente ci insultava o ci sputava addosso. Ma poi quell’isola di coscienza che rappresentavamo si allargò. Si allargò ad altre madri, toccò i riservisti, gli intellettuali. La gente cominciò a capire che disastro era per Israele la scelta della guerra del Libano.
Dopo l’atroce episodio di Sabra e Chatila la popolazione scese in piazza. 400.000 persone nella piazza dei Re.
Nei primi anni 90 il movimento più visibile fu quello di Peace Now, però dopo gli accordi di Oslo la tensione calò e il movimento si disperse. In Israele si viveva un clima disteso e la pace sembrava fosse cosa fatta. Lo shock dell’uccisione di Rabin ci colse impreparati. Le lacrime che scorrevano a fiumi nelle piazze di Tell Aviv piangevano non solo il premier ucciso, ma la pace stessa. E ce n’erano tutte le ragioni, con la destra incombente e il movimento smobilitato. In quegli anni era cresciuto nella società israeliana un forte bisogno di riconciliazione, tra la destra e la sinistra, di riunificazione nazionale, questo significò un forte spostamento a destra. Nei territori della autonomia palestinese tra il periodo di Nethanjau e quello di Barak gli insediamenti raddoppiarono, invece di essere smantellati come era previsto negli accordi, altre terre furono espropriate , mentre l’autorità nazionale palestinese si esercitava su un territorio minimo, frammentato, diviso e il problema dei profughi era del tutto sospeso. In questa situazione non era difficile aspettarsi una nuova rivolta, ma gli intellettuali di sinistra concentrati su se stessi e poco disposti ad occuparsi degli altri non hanno capito questa Intifada, l’hanno vissuta come un tradimento. Da qui le campagne organizzate cui hanno dato vita, di denigrazione delle posizioni politiche palestinesi, nei loro articoli diffusi per tutta l’Europa dove hanno sostenuto che il problema non è l’occupazione dei territori, ma la pretesa del diritto al ritorno dei profughi palestinesi i quali se fossero accontentati annienterebbero con il loro numero lo stato israeliano.
Un intellettuale, ha detto qualcuno, è per sua natura costretto ad indagare la realtà anche contro se stesso, anche se approfondire quella realtà equivale alla propria distruzione perché se smette di farlo, smette anche di essere un intellettuale. Ma questo non vale per i “nostri” e del resto ci sono anche intellettuali il cui compito è quello di coprire i giochi del regime.
Prima degli accordi di Oslo. I palestinesi e il loro presidente Arafat erano tutti terroristi, nei sogni dei bambini israeliani erano l’orco cattivo, poi questa percezione è stata ridimensionata, ma dopo l’inizio dell’intifada sono tornati ad essere un popolo di terroristi senza sfumature. Purtroppo non furono solo i nostri intellettuali di sinistra a sentirsi scocciati dai palestinesi che non smettono mai di agitarsi, tutti noi siamo stati presi da un senso di stanchezza e di torpore. Tanto che all’inizio di questa rivolta ci siamo chiesti che cosa vogliono infine, perché Arafat non ha firmato la pace a Camp David, eccetera.
E’ stato difficile arrivare alla piena coscienza di come stanno le cose, è stato doloroso, lacerante. Però bisogna andare a fondo di quella che è la realtà, altrimenti non cambieremo nulla. Quello che ho detto fin’ora è stato preso per giustificazione ad oltranza del “nemico” e tradimento della patria. Capisco, quello che dico è molto sgradevole. Tuttavia andare alle radici del conflitto è il solo modo di elaborare soluzioni senza violenza. E’ necessario rimuovere l’interiorizzazione del nemico che preclude ogni possibilità di dialogo, rifiutando l’arroccamento su posizioni nazionaliste e militariste . E’ necessario aprici all’ascolto del “nemico” della sua storia delle sue aspirazioni, solo un dialogo sincero renderà possibile una comprensione reciproca che potrà portare non ad una militaristica “sicurezza” ma ad una vera pace per entrambi i nostri popoli.

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