venerdì 6 luglio 2007

Ettore Masina
Miriam Marino



GAZA


“Notte e filo spinato”





Due lettere e quattro racconti














Da “Gaza” di Samih Al Qàsim


…….L’alta sua fronte, un albero maestro
oscillante sul tetto del fumo.
Mi rivolgo a lei, sul collo
I ceppi d’una morte temporanea,
e le chiedo: le mura
della prigione leccano
la vergogna; che cosa, chi sei tu?
Una città oppure un avamposto,
una trincea di petti tatuati
da ogni tipo d’armi
…..Che cosa sei, chi sei?
Sei città, sei macello?
Gli stranieri controllano
di tanto in tanto il melo
Della ferita tua, se fiorirà.
,…..Diagnosticano: forse
morirà,
all’alba forse Gaza morirà.
Ma nell’alba triste tornano
Le grida del tuo amore, ed è più forte la vita,
più forte! Salve a te
sorella ai resistenti
più forte, più in alto. Salute,
o sorella ai miracoli.
I miei piedi in catene da vent’anni
Le mie mani da vent’anni
Straziato amore, nel fuoco:
vent’anni, ahimè vent’anni
di notte e filo spinato
sono la mia finestra verso te
sono ancora un amore
vietato.


























LA TANA








Imad si lasciò andare sul letto senza neppure togliersi le scarpe. Appena la sua testa incontrò il cuscino il mondo sparì come se avesse perso conoscenza. La tristezza stanca come la fatica. Non era passata un’ora quando si destò di colpo. Lo sbattere della porta lo aveva tratto da sogni fumosi. Fadi era già tornato, lo guardò confuso con la sensazione di dovergli chiedere qualcosa. Si, certo, Fadi era stato alla dimostrazione. Era stata organizzata dopo l’arresto nei giorni scorsi di alcuni studenti. La protesta era avvenuta davanti alla vecchia sede dell’amministrazione civile israeliana a Ramallah. Un gruppetto di giovani si era riunito colà sotto una leggera pioggerella fitta e umida che senza darlo a vedere intrideva i vestiti e penetrava nei corpi fino all’anima. Ora dopo gli accordi di Oslo, è diventata la sede dell’autorità palestinese. Gli studenti avevano alzato dei cartelli con su scritto “Fino a quando in prigione?” Era stato stilato un volantino dove gli shebab, protestavano contro l’assenza di democrazia e contro gli arresti politici da parte dell’”apparato statale”, chiedevano inoltre all’Autorità di ricordare che la legge dovrebbe proteggere i cittadini e quindi di riesaminare criticamente quelle “misure imposte dalle circostanze”. Un funzionario era uscito dall’edificio, aveva attraversato la strada per andare a parlare con loro e aveva detto -I vostri amici non sono stati imprigionati, sono nostri ospiti-,
Tutti i giovani avevano riso, anche Fadi e nella gola la risata si era trasformata in una specie di singulto, ne aveva riportato una prostrazione da cui si era ripreso a fatica. Imad guardava la parete dove la pittura scrostata aveva disegnato un volto con la bocca aperta come una o allungata, la bocca aperta in un urlo. Almeno così pareva ad Imad quando lo sguardo che vagava sugli oggetti della stanza vi si fermava per un momento. Fadi si era seduto sul letto. Aveva raccontato all’amico ciò che c’era da raccontare, era inumidito fino alle ossa e sentiva avanzare una certa spossatezza. Imad non se l’era sentita di partecipare alla protesta, temeva di essere scoperto, identificato. Era iscritto all’università di Bir Zeit, ma da quando era stato ratificato dagli accordi che gli abitanti di Gaza non potevano entrare in Cisgiordania era diventato un clandestino nel suo paese. Si chiacchierava molto di pace, di accordi di pace di processo di pace, di futuro stato palestinese. Imad percorreva strade secondarie per andare e tornare dall’Università. Doveva nascondersi dai poliziotti dell’autorità palestinese perché se l’avessero scoperto, l’avrebbero rimandato a Gaza e addio università. Alcuni giorni prima c’era mancato poco. Si era messo a correre col cuore in gola fino a raggiungere quella casa nelle viscere di Ramallah che era anche il suo nascondiglio, era arrivato sfinito. Non era riuscito neppure a mangiare, era caduto sul letto e il sonno era calato di colpo come uno svenimento.
Ormai non usciva più che per andare all’università. Per diminuire i rischi aveva rinunciato ad ogni minimo svago, a tutti i rapporti sociali e la sua vita si era svuotata. La notte sognava di essere in una tana e di scavare nella terra sempre più in profondità, tutta la notte scavava, tutte le notti. A volte però sognava di trovarsi sul proprio letto o in qualunque altro posto completamente sfibrato e impotente a muoversi come se gli avessero versato valium o insulina nel sangue e qualcuno veniva per ucciderlo.
Più tardi rientrò Munir con qualcosa di buono da mangiare. Fadi era andato a dormire debilitato da una fastidiosa febbricola entrata in lui con la pioggia. Munir era di Gaza come Imad, dopo gli accordi di Oslo aveva cercato di lavorare con i servizi di sicurezza palestinesi. Altre speranze di lavoro non c’erano. Doveva tenere sotto controllo gli studenti di Bir Zeit, ma per assolvere adeguatamente al suo compito di spia della polizia avrebbe dovuto arrestare se stesso. Comunque non riceveva lo stipendio da mesi e i suoi controlli si erano interrotti con esso, perché lavorare gratis? Imad non si era preso mai la pena di preoccuparsi di lui, si misero a mangiare. Si accorse di essere affamato. Non era uscito, ora che ci pensava, da diversi giorni. Girò intorno lo sguardo incontrando lo squallore dell’appartamento, tutto era vecchio e cadente, anche la sedia su cui sedeva andava trattata con molto riguardo, perché non si sfasciasse definitivamente sotto il suo esiguo peso di ragazzo magro. Qualcosa di più di una normale misura di prudenza si era introdotta nelle sue abitudini. La casa era stata un nascondiglio, poi un rifugio protettivo ed ora stava diventando una tana. Sopravveniva in lui una vera e propria paura di uscire, paura o un logoramento della pazienza, della fiducia, della forza. Un esaurimento dei nervi che lo lasciava sfiancato. O forse era tutto quello scavare. La mattina si svegliava più stanco di quando era andato a dormire. Imad non era stato sempre così stremato. C’era stato un tempo in cui la sua vivace intelligenza, la sua curiosità sembrava dovessero portarlo a grandi risultati nello studio, sognava grandi orizzonti. Questo prima che rimanesse bloccato. Era prigioniero di se stesso, delle circostanze, della tana. Bloccato in quell’appartamento dai muri sporchi e dai mobili fatiscenti aspettando che qualcosa cambiasse e consumandosi giorno per giorno.
Non poteva tornare a Gaza. Non poteva frequentare liberamente l’università. Trovarsi un lavoro. In tale situazione anche il suo profitto nello studio era andato scemando.
Ogni notte puntualmente continuava l’unico viaggio che gli era consentito, quello nei pochi centimetri quadrati delimitati da un buco. Scavava al buio automaticamente senza tregua come se volesse aprire una finestra non importa su quale spazio nuovo, fosse pure una finestra sull’inferno. Scavando dimenticava se stesso. Non sapeva più se era un essere umano o un vegetale o un seme che spinge con inesausta forza verso la vita.
Scavando si mescolava con gli umori della terra vi scompariva dentro e ne riemergeva, trovava radici e cadaveri con ancora un luccichio negli occhi semiaperti. A un tratto emerse. Come dalle profondità degli abissi marini. A forza di scavare era uscito da qualche parte. Si precipitò fuori scuotendosi la terra di dosso come un morto uscito dalla tomba. La luce era abbagliante. Accecava. Si guardò intorno, Dove si trovava? Forse era tornato a Gaza ed era sbucato in Egitto? Una donna bellissima con una chioma luminosa gli si faceva incontro, le sue braccia si aprivano per accoglierlo mentre diceva
-Salve dolce fratello di luce…ogni depressione è amore per la vita, ogni dolore è ricerca di libertà, non avere paura e agisci secondo la pura volontà del cuore…-
Imad distese i muscoli facciali in un sorriso beato mentre le sue braccia si aprivano. Poi anche i suoi occhi si aprirono e si ritrovò a fissare la lampadina, rimasta accesa quando era precipitato nel sonno, che pendeva nuda dal soffitto.










COPRIFUOCO

Primo giorno

Abdul è troppo piccolo per arrivare alla finestra. Per questo ha trascinato una sedia fino a lì, facendo un baccano infernale tra gli improperi del nonno che non sopporta il rumore. L’ha piazzata nel punto giusto e ci è salito sopra. Negli ultimi mesi i suoi spazi vitali si sono sempre più ristretti. Gli conto i passi. Quando esce da casa è come se lo tenessi legato a un filo invisibile. Sono stati uccisi dei ragazzi che giocavano a pallone non molto tempo fa ed ho paura. Ma devo lasciarlo uscire ugualmente: i bambini non possono vivere senza la luce del sole. Oggi gli ho detto che non sarebbe uscito. Si è subito messo a strillare, per lui sono io che glielo vieto, come si fa a spiegare a un bambino che c'è il coprifuoco? Mia suocera suggerisce un equivalente dell’”uomo nero”, rispondo che ha già fin troppe occasioni e ne avrà, di avere paura non è il caso che lo spaventiamo anche noi. Mia suocera ribatte che la paura è una buona cosa perché aiuta a rimanere vivi. Però non si può vivere sempre con la paura, bisogna lottare anche contro di essa come faccio ogni giorno quando Abdul esce per giocare sotto casa. Non è mai abbastanza vicino per essere al sicuro. Veramente al sicuro non lo è neppure a casa. Finché abbiamo una casa. Penso a mia cugina, che assieme al marito, aveva lavorato tanto e stretto i denti e rinunciato a questo e quello per tirare su la casa, perché i figli avessero un tetto sopra la testa. E poi con la scusa che era costruita senza i permessi (che non vengono mai concessi ai palestinesi) gliela hanno buttata giù, così la famiglia è rimasta senza casa, ma con ancora tutte le rate del mutuo da pagare.
Parte della giornata è trascorsa tra gli strepiti di Abdul che ha litigato con la sorella per avere la sua bambola. Non gli importa della bambola, ma non sa che fare, si sente in gabbia povero piccolo. La nonna lo ha preso in giro
-Sei un maschio che ci fai con la bambola?-
Questo è servito a fare in modo che Abdul aumentasse il livello dello strepito, finchè Wael, mio marito, gli ha dato uno schiaffo, senza che ciò migliorasse la situazione.
-Che diavolo fai!- Ho gridato
-Perché lo picchi?-
-Non volevo colpirlo- ha detto mio marito
-mi ha esasperato!-.
Quando lo spazio vitale viene a mancare tutto diventa più difficile, i piccoli dissapori ingigantiscono, ci si sbrana per una parola di troppo e si potrebbe uccidere per un momento di solitudine. Adesso Abdul è calmo, guarda fuori dove lui non può andare. Il suo visino è triste e quieto, rassegnato. Non si stanca a stare in piedi sulla sedia per guardare fuori, sta lì da più di mezz’ora. Mi si stringe il cuore a guardare questo bambino prigioniero. Mi sento disperatamente impotente nella sua stessa prigione. Nella stanza entra il nonno borbottando, quando vede Abdul in piedi sulla sedia comincia a gridare:
-Ma siete matti? Toglietelo subito da lì, non sapete che è pericoloso stare alle finestre? Che potrebbero sparargli?-
Senza aspettare il mio intervento mio suocero prende in braccio Abdul e lo mette a terra, il bambino rimane un momento confuso, poi ricomincia a strillare più forte che mai.

secondo giorno


Oggi ci doveva essere la prima festa, in occasione del compleanno di Amina. A scuola i bambini erano spaventati e scoraggiati al ritorno dall’ospedale dove la maestra aveva portato Rasha che si era fatta male a un piede durante la lezione. Mentre l’infermiere le medicava il piede un’orda di coloni aveva fatto irruzione gridando insulti e minacce. Brandivano bastoni e pietre e qualcuno anche qualche pistola. Hanno spaccato tutto, hanno schiacciato le scatole di fiale sotto i piedi e gettato in terra il materiale sterilizzato. E’ corso un medico e ha cercato di salvare dei macchinari importanti, ma loro lo hanno trascinato via, lo hanno picchiato e hanno distrutto le macchine della respirazione colpendole con i bastoni e sparandoci contro. La maestra ha detto che non dovevamo farci abbattere, che anzi dovevamo trovare delle occasioni per festeggiare. Ha detto che se disimpariamo a sorridere poi non riusciremo più a farlo. Abbiamo deciso che una buona occasione poteva essere quella di festeggiare il compleanno di tutti gli scolari e la prima che compiva gli anni era Amina. Così la scuola è stata addobbata con i festoni, la mamma di Amina e altre mamme hanno preparato dei dolci, ognuno aveva comprato un regalo perché festeggiare la ricorrenza della nascita di una persona è come affermare che la sua vita ha valore. Ma un giorno prima della festa hanno proclamato il coprifuoco. Così abbiamo visto che non siamo liberi di decidere niente. Siamo tutti ostaggi dei soldati che occupano la nostra terra. Non serve fare dei progetti, chiedere o fare delle promesse, dare un appuntamento, perché non dipende da noi dipende da loro se ce lo lasciano fare. Nemmeno più la nostra vita è nostra. Oggi la mamma aveva promesso a Abdul di portarlo al mare, invece non è potuto nemmeno uscire giù al portone ed è arrabbiato con la mamma, è ancora troppo piccolo per capire che la mamma non può farci niente. Sbatte i piedi per terra e strepita rivolgendosi alla mamma a papà o ai nonni inutilmente. Nessuno di loro ha autorità sufficiente per accompagnarlo al mare. Gli adulti mi fanno pena più dei bambini. La maestra era più smarrita di tutti noi quando quegli scalmanati si sono scatenati sotto i nostri occhi e ci siamo messi a correre chiudendoci tutti nel bagno. I bambini devono comunque chiedere il permesso agli adulti perché sono piccoli ma gli adulti sono diventati anche loro dei bambini perciò è inutile rivolgersi a loro.
Ieri Abdul ha strillato tutto il giorno perché è abituato a uscire, voleva la mia bambola e gliel’avrei anche data ma lui ha cominciato a trascinarla per i capelli. Oggi si è ricordato del mare ed ha ricominciato, però ha smesso prima. Piano piano si stancherà anche di protestare. La mamma è così irritata che non le si può rivolgere la parola, ieri per poco litigava col babbo ma era con i nonni in realtà che era arrabbiata. Non vanno molto d’accordo ma non si vedono spesso perché la mamma è sempre fuori per il suo lavoro, ora invece siamo tutti costretti a pestarci i piedi in poco spazio e ci accorgiamo di quanto è piccola la nostra casa.



Terzo giorno

L’altro ieri ho picchiato il piccolo Abdul. Niente di speciale, solo uno scappellotto ma quel gesto mi ha inquietato nel profondo. Non avrei mai alzato la mano su di lui senza il coprifuoco. Altre volte mi aveva esasperato ma non mi era mai venuto in mente di reagire così. Nemmeno i nostri gesti sono liberi. E non lo sono i nostri pensieri. Uno dice “Nei pensieri, nel cuore nessuno mi può comandare” ma non è così! Una volta dicevamo “Noi siamo migliori di loro. Noi abbiamo un obiettivo abbiamo un sogno.” Ma poi la loro violenza ci è entrata nell’anima. Che cosa diventeremo? Che ne sarà di noi? Questa notte mi mancava l’aria e non riuscivo ad addormentarmi, poi sono precipitato in un sogno angoscioso. Ho visto Abdul. Era grande, assieme ad altri giovani stava bruciando dei pneumatici per fare una barricata. Mi sembrava che ripetesse un gesto della mia vita passata. Nel vedere questa scena una tristezza profonda mi è scesa nel cuore “Allora non cambierà mai niente!” ho pensato e mi sono svegliato singhiozzando. Mia moglie Fadwa mi scuoteva sibilando tra i denti:
-Per la miseria Wael, non farti sentire dai bambini!-
Noi non possiamo nasconderci i sentimenti. Non abbiamo lo spazio sufficiente per nascondere rabbia e lacrime.
Sono ricascato sul cuscino fradicio ma non ho più potuto riprendere sonno.


Quarto giorno

I nostri pensieri sono così vicini così costretti ad una promiscuità impudica che finiscono, a volte, per sbattere gli uni contro gli altri. Stanotte i miei si sono infranti contro quelli di mio figlio Wael che singhiozzava nel sonno. Così mi sono detta “A che è servita Fatima, la tua vita di donna orgogliosa che non si è mai piegata , la tua vita di resistenza e di lotta se oggi tuo figlio, un uomo nel fiore degli anni, nel pieno della forza non può fare altro che piangere nel sonno?
Ricordo quasi con nostalgia gli anni in cui giovane studente in giro per l’Europa, nelle manifestazioni, nelle conferenze, nei dibattiti organizzati dai Gups, gridavamo le nostre ragioni a un occidente schierato con Israele e inconsapevole di ciò che davvero accadeva sul terreno. Ma allora tutto sembrava diverso, allora tutto sembrava in cammino e noi camminavamo con i nostri sogni e la nostra bandiera dispiegata. Sono una donna forte. Dura come una pietra. Quando sono tornata nel mio paese illudendomi che la pace mi aspettasse a braccia aperte ho trovato spalancate le braccia della prigione. Non potevo credere che si potesse chiamare libertà o autonomia quel camminare sempre con la corda al piede. Dovevo chiedere un permesso per ogni cosa. La mia vita si andava svuotando di spontaneità, di bellezza. Un ufficiale disse “Se vuoi che ti aiuti, tu aiuta me” quando andai a fargli richiesta della carta di identità. Intendeva dire che dovevo denunciare i miei vicini, i miei parenti, chi mi pareva, insomma una delazione. La risposta che gettai sul muso di quel bastardo mi costò la prigione. E non una sola volta. Perché non smisi mai di denunciare il loro castello di mistificazioni, non smisi mai di resistere. Sono dura come una pietra ma stanotte una lacrima è scesa a rigare la mia faccia di sfinge.



Quinto giorno


A volte mi confondo, mi sembra di essere ancora in prigione e non a casa. Quand’ero in prigione pensavo che una volta uscito avrei scritto tutto, ogni cosa di quello che mi avevano, di quello che ci avevano fatto. Poi però tutto si è intrecciato si è confuso. Vale più raccontare i soprusi grandi o quelli piccoli? la tortura o il ceck point? I bombardamenti o il lasciarci al buio, senza corrente, durante il coprifuoco di modo che non riusciamo a capire niente di quello che succede? La mancanza di libertà di movimento o i rastrellamenti? Le umiliazioni o gli ordini contrastanti, dopo averci terrorizzato e costretti a concentrare le energie nel cercare di capire cosa bisogna fare per non farsi sparare addosso, di modo che impazziamo completamente? Insomma, la gabbia o l’elettroshock? Tutto si è confuso in un’assurda routine di dolore quotidiano, una routine che ormai non fa più effetto a nessuno nel mondo. E’ come se tutti avessero collegato la realtà del ceck point, del muro, della chiusura e del divieto alla vita palestinese come una volta si collegava la corrida alla Spagna e i spaghetti all’Italia: colore locale. Ma quello che è peggio è che neppure più a me va di raccontarlo, di gridarlo. Se mi guardo intorno vedo che non c’è un solo abitante di Gaza che non abbia sofferto quanto me e di più. Un tale intreccio di soprusi piccoli e grandi attraversa la nostra giornata che neppure io me ne ricordo più.
Ho bisogno di vedere qualcosa di bello prima di chiudere gli occhi.
Vedo mio nipote Abdul in prigione ancora prima di imparare a parlare.








IL NEMICO

Samuel Irsh era diventato in poco tempo straordinariamente somigliante a tale Mahmud Idris che tornava al campo profughi di Kan Yunis dalla Siria, accompagnato da un parente, un collaborazionista palestinese, che abitava colà e che avrebbe fatto in modo di fugare ogni sospetto dallo straniero e permettere a Samuel Irsh, agente del mossad, di portare a termine la sua missione che consisteva nello scovare il principale responsabile del traffico di armi, fucili per lo più, provenienti dall’Egitto e fatti arrivare al campo passando per i tunnel scavati a tale scopo. Samuel sapeva che doveva conquistare la fiducia della gente e lasciarsi alle spalle ogni pregiudizio ogni pensiero bellicoso, entrare nella loro mente, conquistare la loro logica.
Un bambino silenzioso giocava tutti i giorni nei pressi di casa sua, era Zakarya, il figlio della vicina. Il vecchio Abu Daud gli aveva detto che il ragazzino non parlava più da quando avevano ucciso il padre sotto i suoi occhi. Era andata così: Zakaria era affacciato alla terrazza e aveva visto il carro armato arrivare, suo padre era già sulla strada, ma non poteva ancora vederlo, il bambino si era messo a urlare facendo larghi segni con le braccia per avvertire il padre
-Papà il carro armato! il carro armato!-
gridava da lassù, suo padre si era voltato e vedendo come si sbracciava aveva creduto che volesse salutarlo, aveva sorriso e agitato il braccio in risposta
-Papà il carro armato!-
Aveva gridato più forte Zakarya, in quel momento il cannoncino aveva sparato e il padre di Zakarya smesso di sorridere. Da allora il bambino non parlava più, pare che facesse ancora la pipì a letto sebbene avesse ben undici anni. Abu Daud aveva un altro figlio, oltre Daud il primo, si chiamava Ibraim ed era un giovane toccato dalla grazia. Non si poteva rimanere indifferenti davanti al suo sorriso, emanava da lui una luce di pulizia, di gentilezza che conquistava all’istante. Samuel era contento di non doversi sforzare per dimostrare amicizia a quel palestinese, questo rendeva più facile il suo lavoro.
Appena arrivato al campo di kan Yunis aveva avuto un moto di rifiuto:
“vivere in questo posto finché non trovo il ricercato è una vera penitenza”. Faceva fatica Samuel Irsh ad abituarsi alla povertà del campo, alla scarsità di acqua, alla gente…vedere ogni tanto il volto amabile di Ibraim lo faceva sospirare di sollievo, e provava per lui una sincera gratitudine. La gente poi, col tempo non si dimostrò così male.
Bussò Yacub che aveva le braccia piene di pomodori e cetrioli Samuel vide prima gli ortaggi e dietro Yacub che diceva:
-Per te, fratello-
Sapeva che Mahmud Idris era stato tanto tempo in esilio e voleva che si sentisse bene ora che era tornato a casa.
Samuel rifletteva: “Yacub, Ibraim, Daud, Zakarya, quanti nomi ebraici hanno questi palestinesi!” Si ricordò di uno studio fatto sul DNA dei palestinesi e degli israeliani da cui era risultato che avevano le stesse caratteristiche, qualcuno si era spinto ad ipotizzare che i palestinesi fossero gli eredi attuali di quelle popolazioni ebraiche che non avevano mai lasciato la Palestina. In passato questa teoria era sembrata assolutamente inverosimile a Samuel, ora lo turbava, perché dovevano avere tanti nomi ebraici?
-Proprio così fratello mio- stava dicendo Yacub
-Hanno legato quel poveretto davanti al carro armato perché la gente non tirasse loro pietre o pallottole uscendo dal campo, e non pensare che l’abbiano fatto una volta sola, lo hanno rifatto con Amir, il piccolo di Abu Daud che ha dieci anni, lo hanno legato sulla jeep militare e intanto loro fumavano e ascoltavano la radio, quel bambino ha preso uno spavento che non si dimentica facilmente-
-Abu Daud ha altri figli oltre Daud e Ibraim?-
-Sicuro, ne ha sette-
“già,” pensò Samuel “il solito problema della demografia a loro vantaggio che ci costringe a corrergli dietro e a far nascere anche noi più bambini”.
-Non pensare che lo dica per scoraggiarti, ma qui facciamo una vita peggio dei cani,- continuò Yacub
-Intendiamoci io dal mio paese non me ne andrei, però…da qui non si esce, se hanno missili da lanciare stai sicuro che li gettano qui’, non ci sono rimaste più possibilità di vita, credimi ci hanno perfino schiacciato le fragole sotto i carri armati e i fiori ci si appassiscono prima che ci diano il permesso di portarli fuori, di venderli, lo sai no che i fiori sono o meglio erano una delle nostre maggiori risorse?
Fiori…in quello schifo di posto si coltivavano fiori…
-Ormai ce li fanno marcire…- stava dicendo Yacub.
.
-_Mahmud, Mahmud-
Samuel ci mise un po’ per ricordarsi che Mahmud era lui, Ibraim lo chiamava da fuori con insistenza.-
-Che diavolo vorrà adesso- pensò Samuel uscendo.
Ibraim era davanti alla porta tutto agitato
-Mahmud non uscire c’è un drone che svolazza sopra le nostre teste, è pericoloso!-
Tu allora perché sei uscito?_
Per avvertirti, non sei abituato a qui e magari non sai cosa sono i droni-
Che cosa sono?- mentì Samuel
Piccoli aerei senza pilota, sorvolano spesso il campo, non riesci a vederli o a sentirli, sono molto silenziosi, solo quando sparano ti accorgi di loro perché vedi la luce ma allora è troppo tardi-
Sei molto in gamba ad averli individuati!-
Macchè in gamba! Il drone ha colpito il povero Abu Kaled che passeggiava col nipote, Zakaria, sai quel bambino che non parla, abita di fronte a te-
Samuel ebbe un moto di raccapriccio, ancora il povero Zakaria, aveva incrociato qualche volta gli occhi tristi e spauriti dell’orfano mentre giocava davanti a casa.
All’improvviso realizzò che Ibraim era venuto ad avvertirlo mettendosi a rischio ed era ancora fuori possibile preda del drone. “Eh no! Ibraim no,” lo prese per il braccio
-vieni dentro – disse.

La gente del campo era terrorizzata dai droni e non osava uscire di casa così Samuel non aveva potuto far provviste e aveva mangiato tutti i pomodori e i cetrioli di Yacub, ora non restava più niente. Era furioso e diede un calcio alla gamba del tavolo
-Maledizione!- Esclamò,
-nemmeno i topi si trattano così!-
A un tratto si fermò confuso e turbato “Penso già come loro” si disse, andò in bagno e mentre guardava Mahmud Idris nello specchio sentiva affiorare lentamente il palestinese che era in lui.

Il piccolo Yussef tracciava lunghe onde azzurre col gessetto sulla strada.
-Cosa fai?- domandò Samuel
-Non si può andare verso il mare, hanno chiuso il passaggio con un ceck point, mi faccio un po’ di mare qui-
-e come pensi di farci il bagno?-
-E’ una spiaggia libera, ho disegnato una spiaggia libera, ci puoi fare il bagno anche tu-
-sei un ragazzo generoso, davvero…-
I suoi figli a quest’ora giocavano di sicuro sulla spiaggia di Tel Aviv.
“Perché Yuseff no? Perché deve accontentarsi di un mare disegnato?” Gridò Mahmud Idris dentro di lui. Il campo stava divorando lentamente Samuel Irsh, più lo cercava dietro la faccia di Mahmud Idris, più scompariva. “Che vuoi? Tu non esisti, sei solo il mio travestimento protestava senza forza.

Zakarya aveva improvvisamente ripreso a parlare.
-Quando finisce la guerra zio?- chiedeva ad Abu Daud.
-La guerra non finisce- rispondeva il vecchio.
Samuel-Mahmud si avvicinò.
-Cosa stai dicendo a questo ragazzo Abu Daud? Perché dici che la guerra non finisce? Guarda il Libano! Sembrava che la guerra non dovesse mai finire, eppure! Tutto finisce Abu Daud!-
-Non è così fratello, la guerra è finita per i libanesi, ma non per noi.- E il vecchio contò sulle dita:
-Il 48, la Nakba, il 67 l’occupazione Di Gaza e Cisgiordania, il 70, in Giordania, la strage del settembre nero, il massacro di Tall al Zaatar nel 76, l’82 in Libano: Sabra, Shatila, Borje el Barajne, l’87 i morti e le braccia spezzate dell’Intifada, nel 2000 l’intifada di al Aksa, son quasi già tremila morti e l’ultima è di stamattina, la piccola Intisar quando si è spinta a giocare troppo vicino alla postazione. Siamo sempre noi, ad essere inseguiti dalla guerra. La guerra che ci salta addosso più di quella che combattiamo, la guerra finisce per gli altri, ma per noi non finisce fratello…-
-Non si può evitare di parlarne con i bambini?-
-I bambini ci sono dentro quanto noi!-
Arrivò una bimba piangendo, teneva per un braccio la sua bambola di pezza che aveva un grande buco fumante nella pancia
-…Hanno ucciso la mia bambola- gemeva.
Mahmud si chinò su di lei che smise di piangere.
-Andiamo dalla mamma- le disse, la bambina mise la manina nella sua.


Un sole abbagliante si versava nelle stradine del campo, Mahmud vide Yacub e Ibraim parlottare tra loro, il sorriso del secondo era particolarmente felice, si accostò per ascoltare.
-Ci siamo finalmente!- stava dicendo Ibraim a Yacub.
-Cosa accade?- Domandò con finta indifferenza. Yacub esitò
-Niente d’importante fratello-.
Ibraim però appoggiò una mano sulla spalla di Mahmud dicendo con gentilezza:
Mahmud è un mio amico, possiamo fidarci Yacub. Dunque amico mio sappi che finalmente stiamo per mettere le mani sui fucili che abbiamo tanto aspettato-
-che fucili?-
Quelli che passeranno dal tunnel. Per la verità è poca cosa, ma servirà almeno a difendere la gente del campo in caso d’aggressioni da parte dei coloni o dei soldati.-
Ed è merito vostro avere organizzato tutto?-
Soprattutto merito di Ibraim-
si schernì Yacub, è lui che ha fatto praticamente tutto!-

Dunque Ibraim! Il suo migliore amico, era lui il responsabile! Mahmud Idris si sentì male, Samuel Hirsh caricò la pistola e si preparò all’azione.
Telefonò all’amico:
-Vediamoci a casa tua, devo parlarti di una cosa importantissima, ma fa in modo che non ci siano tua moglie e i bambini, è una cosa molto segreta.-
Almeno questo voleva fare per lui: non coinvolgere la sua famiglia.
Ora era di fronte a Ibraim che aspettava le parole segrete. La mano di Samuel strinse il calcio della pistola che aveva in tasca. Voleva sbrigarsi. La mano di Mahmud gli impediva di estrarre l’arma. Sudava copiosamente dando la colpa al kamhsin che soffiava dal deserto. Una lotta titanica, silenziosa nella sua tasca. Chiese di andare in bagno.
Tuffò la testa sotto il rivolo d’acqua del rubinetto, la faccia di Mahmud lo fissava dallo specchio. All’improvviso la quiete. Si accorse che Samuel e Mahmud non lottavano più in lui: erano diventati una cosa sola.
Ora era calmo. Da quella calma emerse con incredibile chiarezza il pensiero che stava combattendo contro se stesso. Il nemico era sempre stato in lui.
Tornò nella stanza. Una grande lucidità aveva preso il posto del conflitto.
Non avrebbe sparato sul sorriso di Ibraim.







INSOLITO EVENTO




L’incredibile notizia ha fatto ben presto il giro del villaggio. E’ stato il piccolo Ayman a sussurrarla per primo nell’orecchio di Um Yusif. La vecchia è corsa a casa eccitata e ha comunicato ciò di cui è venuta a conoscenza alla nuora e al figlio. I ragazzi che giocavano fuori sono rientrati in casa vedendo i genitori e la nonna confabulare, i loro occhi si sono dilatati per lo stupore.
Un soffio di vento che saliva dal deserto ha catturato la novità portandola con se e depositandola davanti alla casa del mukhtar. Nella casa tutti sono molto tristi. I soldati hanno bombardato il villaggio e ferito la moglie del mukhtar, Isham, il loro figlio più piccolo era andato a trovare la mamma all’ospedale quando dalla colonia vicina hanno sparato e lo hanno ucciso. Il mukhtar esce dalla casa vestito di bianco. Ha la barba grigia e un aspetto maestoso segue con gli occhi il soffio di vento che si allontana. Ora il soffio di vento sta sorvolando il gregge di Abu Salem, le pecore stanno tutte sotto gli alberi, prima pascolavano in giro ma dopo i bombardamenti sul villaggio hanno paura a muoversi e rimangono lì ferme. La notizia nel vento fa alzare loro il muso verso il cielo come per cercarvi una conferma. E il vento passa sulla testa della cagna Najla mentre si ripara con le orecchie basse dentro una casa abbandonata. Tutto il giorno ha ringhiato contro il caterpillar che strappava gli alberi a poca distanza. Najla annusa l’aria perplessa. Poi il vento soffia leggero come una carezza sulle braccia della palma fuori casa, quella che è stata abbattuta dal bulldozer e poi tirata su con fatica da Salem, ma che però, dice Salem, si è così spaventata che non fa più frutti. Poi attraversa il villaggio e accarezza un murale pieno di buchi dipinto su un lungo muro. Il murale rappresenta il piccolo Mahmud Al Dura abbracciato al padre che cerca di proteggerlo, tutti e due accovacciati contro un muro. Il ragazzo fu ucciso dai proiettili dei soldati ma i buchi non sono disegnati, sono fatti da proiettili veri. Il vento accarezza realtà e rappresentazione che coincidono, poi arriva a una casa diroccata. Un uomo sta rovistando nelle macerie. E’ Abu Riad che cerca i documenti dei bambini per la scuola. I soldati hanno distrutto la casa perché dicono che un kamikaze si è nascosto da quelle parti, però sotto c’è rimasto il nonno che non ha fatto in tempo a uscire, o forse non ha voluto. Abu Riad alza la testa incredulo. Il vento continua il suo cammino e arriva a casa di Walid che gioca tirando sassi in una buca ma non sta tanto bene da quando i soldati hanno sparato alla nonna che era andata a dormire in cortile perché faceva troppo caldo. Walid segue con gli occhi il vento che si allontana poi corre in casa ad annunciare il verbo a tutta la famiglia. Intanto il vento ha raggiunto anche la dolente famiglia di Jaber la cui figlia Jasmin di 20 anni è stata uccisa assieme alla nipotina di nove e poi entrambe sono state maciullate sotto i cingoli del carro armato e ai resti è stato dato fuoco: il tutto sotto gli occhi della famiglia.
Quando cala la sera spennellando il cielo con i suoi colori rosati tutto il villaggio ormai è a conoscenza del fatto che Ayman ha sussurrato nell’orecchio di Um Yusif e che poi il vento ha portato con se.
Prima che il crepuscolo azzurrato emani la sua incerta e magica luce, una lunga fila di gente si incolonna davanti alla casa di Abu Sharif, perché tutti vogliono vedere con i propri occhi l’insolito evento, il fatto che non pensavano potesse ormai più accadere: la salma del vecchio Abu Sharif composta nel suo lenzuolo funebre, morto di morte naturale.





Nota: Per la stesura di questi racconti sono stati consultati
Edward Said “Tra guerra e pace” e Federica Cecchini “L’uomo che parla dalla torretta”

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